L’arte della contraffazione a Firenze

Kojo (nome di fantasia) è un ambuante che vende paccottiglia nelle strade di Firenze. Lo incontriamo in un bar all’ora dell’aperitivo, “Oggi ho guadagnato un euro! Come faccio a mandare i soldi alla mia famiglia in Senegal?” Alza un pezzo di frittata fra due dita, se lo fa cadere in bocca e biascicando rumorosamente ci rivela: “Siamo in una sessantina a fare gli ambulanti a Firenze, tutti senegalesi”. Alcuni, come lui, hanno accendini, braccialetti e cianfrusaglie; altri smerciano abiti e borse contraffatte: “Si fanno più soldi vendendo vestiti falsi, però è troppo rischioso, se ti trovano vai in prigione. Io al massimo vengo rimandato in Africa”. Il Codice Penale agli articoli 473 e 474 prevede pene fino ai quattro anni di reclusione e sanzioni fino a trentacinquemila euro per chi contraffaccia marchi venda o introduca merce falsa in Italia. Chiediamo di più sul business del tarocco, così scende nei dettagli: “Gli abiti vengono comprati senza la marca in negozi cinesi di Pisa. Tantissimi lo fanno”. Il percorso della falsificazione inizia nelle boutiques made in China, dove gli ambulanti trovano l’abbigliamento grezzo che, dopo esser stato “elaborato”, venderanno nelle vie di fiorentine. La seconda tappa passa per i laboratori contraffattori, Kojo: “Se vuoi vendere una maglietta, ci devi attaccare il marchio. A farlo sono dei laboratori che cuciono bottoni ed etichette e che attaccano placchette sulle borse”. Chiusure e brand in stoffa vengono dall’estremo oriente o dalle aziende madri, rubate da dipendenti e rivendute gli atelier contraffattori. Le placchette metalliche, ci dice vengano da Napoli: “Le fanno benissimo, non riconosci il pezzo falso dal vero”. Basta un po’ di colla attack e la borsa sembra originale. Col tempo, il settore si è meccanizzato: “Alcuni hanno una macchina computerizzata. Scegli sul display la marca e in cinque minuti il pezzo è rifinito”. Il terzo stadio poi è la strada dove verranno vendute le copie. Data la clandestinità è impossibile sapere quanti siano questi laboratori, ma intuiamo la dimensione del fenomeno quando Kojo ci saluta: “So queste cose perché molti miei paesani lo fanno. A Pontedera ce ne sono talmente tanti che la chiamano Pontenera!” Ride.
La nostra ricerca continua con Z. (chiamiamolo così) venditore senegalese di abiti falsi. Lo seguiremo mentre compra gli abiti e poi nelle manifatture clandestine che apporranno le marche, ha garantito che ci faranno entrare. Ci troviamo alle otto di mattina, stazione fiorentina di Santa Maria Novella. Arriva e ci saluta nervosamente, sorride senza smettere di guardarsi intorno. Prendiamo il primo treno per Pisa e ci avverte: “Se ti fanno entrare nel laboratorio, non fare troppe domande, magari pensano che sei della Finanza”. Arrivati andiamo diretti al negozio, percorrendo in una strada affollata di botteghe cinesi. La padrona, vecchia e sdentata, non parla l’italiano, ma di sicuro è astuta nel business, visto che per soddisfare gli ambulanti senegalesi ha assunto un commesso di Dakar. L’assistente domanda: “Che marche vuoi?” Z. sceglie polo e camicie simil-Gucci e simil-Fred Perry. Il dipendente piazza sul bancone uno scatolone zeppo di pezzi made in Bangladesh, nei dettagli uguali agli originali, ma non ancora etichettati e senza marchi. Siamo davanti al semi-lavorato, che sarà contraffatto nei laboratori “competenti”. Z. paga cinquantacinque euro per dieci pezzi fra magliette e camicie, poi ripartiamo. Andiamo a Pontedera, seconda tappa del viaggio del falso.
Z.: “Il laboratorio dove andremo è di alcuni amici”. Arrivati, aspettiamo in stazione e dopo qualche telefonata arriva Moussah: senegalese alto due metri, indossa una tuta lisa e zoccoli imbottiti di lercia ecopelliccia. Controlla i capi e annuisce. Ci fa entrare nella sua utilitaria polverosa, parla al cellulare e Z. ci traduce la telefonata dal wolof (idioma nazionale senegalese): si stanno coordinando per la lavorazione. L’interprete però si interrompe e il gigante spegne la macchina, sembra che il capo del laboratorio non sia pronto, ma le versioni cambiano velocemente: “Non c’è. E’ fuori città”. Poi:”E’ malato”., oppure “Puoi venire domani?” Solo alla fine: “Devi aspettare un po’, almeno fino alle due del pomeriggio”. E’ per la nostra presenza che non si sentono tranquilli, ce lo dice Z.: “E’ capitato che qualcuno portasse italiani nei laboratori e che questi poi chiamassero la finanza o la polizia, perciò hanno paura”. Nelle quattro ore di attesa abbiamo la conferma di quanto detto da Kojo, Z.:” Questi hanno messo da parte dei soldi e hanno comprato una macchina per cucire le marche, a Napoli”. Dopo aver aspettato a lungo, finalmente Moussah torna, sorride furbo e dice:”Per oggi niente”. Non gli siamo andati a genio, ce ne andiamo. Passano lunghe settimane, Z. sparisce, poi una sera ci chiama:”Forse ho trovato chi mi fa la roba, è a Pisa. Stavolta vado solo, poi faccio vedere i pezzi”. Accettiamo, la nostra presenza brucerebbe una seconda occasione. Pochi giorni e il telefono risquilla:”Sono in treno, ho fatto tutto. Ci vediamo a Firenze”. All’incontro ci mostra la mercanzia, gli stessi pezzi comprati a Pisa, adesso hanno i brand: Lacoste, Moncler, Napapijri e Stone Island; pazienza per Gucci e Fred Perry. Un paio non sono venuti benissimo, ma i restanti ad un primo colpo d’occhio sono identici per etichette, stemmi e bottoni. Z. spiega che dopo il tentativo di Pontedera nessuno si fidava più di lui. ” Alla fine poi ho trovato amici di Pisa, avevano anche loro il macchinario. Così ho sistemato tutto!” Sono bastati trenta euro per rifinire i capi che Z. venderà a squattrinati gitanti. Ci saluta e se ne va ciondolando poi si ferma, si volta e dice sghignazzando:”Buona Pasqua eh!” Z. è musulmano.

Alcuni dei capi contraffatti che Z. ci ha mostrato.
Quantificare il giro d’affari della contraffazione del settore moda è impossibile. Le uniche statistiche fanno riferimento ai sequestri eseguiti dalle forze dell’ordine. Dati del Ministero dello Sviluppo Economico contano in Toscana nel 2014: oltre 750 blitz e quasi settecentocinquantamila pezzi sequestrati, per un valore intorno ai diciassette milioni di euro. Pur non arrivando al podio, occupato da Lazio (circa centocinquantasei milioni di euro in capi sequestrati), Campania (circa sessantasette milioni) e Lombardia (circa sessanta milioni), la Toscana nel 2014 si è attestata al quarto posto italiano per valore di merce sequestrata. Dati della Guardia di Finanza di Firenze, riferiti ai controlli provinciali del 2015, indicano 679 sequestri, 651 denunce (9 tramutate in arresto) e un milione di capi falsi sottratti alla vendita illegale. I valori sono confermati dal Maggiore Andrea Fegatelli, comandante del terzo nucleo operativo gruppo Guardia di Finanza di Firenze. Lo incontriamo al Comando Investigativo e di Polizia Tributaria, dice: “La cifra di diciassette milioni è assolutamente plausibile”. Corrobora la versione della provenienza pisana dei capi:”Pisa è una direttrice da dove arrivano per vendere la merce”, ribadisce la tesi dei laboratori pontederesi: “Anche Pontedera è una delle direttrici”, e della provenienza dei macchinari: “E’ vero che ci sono aziende che finiscono i prodotti ed è plausibile che abbiano acquistato i macchinari a Napoli”. Ci spiega anche, come il mondo fiorentino del falso si sviluppi su due livelli, distinti dalla qualità della produzione. La serie A , con pezzi prodotti in Italia da materiali di prima scelta e il mercato della strada, retto da immigrati senegalesi che vendono patacche made in China: “A livello alto ci sono artigiani che hanno lavorato in aziende importanti e adesso esercitano illegalmente”. In alcune perquisizioni sono state sequestrate pelli e punzoni originali di Hermes, rubati per riprodurre le borse della casa francese. Aggiunge Fegatelli: “La qualità è tale, che alcuni periti delle case di moda non sono stati in grado di distinguere i falsi”. Proviamo la buona fattura di alcuni tarocchi quando ci mostra gli ultimi pezzi sequestrati, fibbie e cinture di Gucci identiche agli originali, poi rincara:”Anche gli africani si sono strutturati!” La merce asiatica capita che sia reperita dai cosiddetti capomaglia, distributori in congiunzione tra ambulanti e aziende riproduttrici, ancora: “In un blitz del 2014 arrestammo dei senegalesi. Mostravano la merce catalogata su un ipad e solo dopo la conferma dell’acquisto, la portavano al cliente in strada da un nascondiglio vicino”.
Anche la cronaca offre numerosi casi registrati fra Firenze e Pisa.
Nel 2015 le Fiamme Gialle di Pisa hanno messo in atto quarantanove sequestri, che hanno causato ventuno denunce e il ritrovamento di oltre centocinquantamila accessori di abbigliamento falsi.(La Nazione)
Sempre a Pisa nello stesso anno, dopo ulteriori controlli altre trentamila le copie rinvenute. (Il Tirreno)
A Firenze quest’anno, con l’operazione “Mountain Belt”, sono state trovate migliaia di cinture e articoli in pelle falsi. (Firenze Post)
Seppur contrastato con forza dalle autorità, in Toscana e nel resto d’Italia, il sistema della contraffazione è però una economia ancora florida. Per provare a capire quale sia la ragione di un tanto ricco businness, ripensiamo alle parole del Maggiore Fegatelli: “La contraffazione fiorisce perché il fashion tira! E’ così importante avere un capo firmato, che molti sono disposti a comprare un falso, senza considerare il danno economico e legale che ne deriva. Questo è il peccato originale”.