Quando Sigmund Freud incontrò il suo ammiratore Salvador Dalì

Madrid, ora meridiana. Sedevo all’ombra di un albero del parco del Retiro, trafelata da un caldo micidiale che scioglieva i contorni delle cose, sotto i raggi perpendicolari del sole. Non avevo più la voglia né la forza di camminare e così mi ero distesa su una panchina a guardare il fogliame frusciare pigramente sotto la spinta di lievi aliti di vento caldo. Intorno a me – fatto strano – non c’era nessuno. L’atmosfera, forse per via del caldo torrido o più probabilmente per l’effetto che suscitano i posti deserti, mi appariva in qualche modo aberrante, fuori dalla ragionevole e rassicurante normalità. Mi sembrava che gli oggetti potessero da un momento all’altro spalmarsi al suolo come formaggio fuso sulla griglia e la terra tornare a popolarsi di spiriti, come migliaia di anni fa. Probabilmente i turisti dovevano essere migrati tutti verso i ristoranti o verso il carretto che vendeva limonate, all’ingresso del parco. Questa era ovviamente una delle possibili risposte razionali, ma avevo preferito raccontarmi un’altra verità: ero morta. Oppure ero chissà dove e stavo sognando. Avevo dunque provato a chiudere gli occhi per vedere se riuscivo ad addormentarmi nonostante fossi già addormentata temporaneamente o per l’eternità, cioè morta. Per quanto mi sforzassi, però, il sonno non arrivava e il mio esperimento non riusciva ad ottenere altro esito. Mentre mi interrogavo oziosamente sulle facoltà e i bisogni di un’entità incorporea, giunse alle mie orecchie, prima vago, lontano e confuso, poi sempre più vicino e distinguibile, il suono di uno scalpiccio strascinato, accordato al ritmico e ottuso rumore di un bastone da passeggio. Preferii non aprire gli occhi: da morti si possono fare incontri strani, forse più che da vivi, pensavo. I rumori si arrestarono proprio accanto a me e dopo un breve silenzio ecco! l’emissione indecente di un sospiro appagato e l’inconfondibile tonfo di un corpo pesante denunciarono senza ombra di dubbio l’avvenuto: qualcuno si era seduto accanto a me senza permesso chiesto né ricevuto. Stando allo schianto ovattato delle membra grevi, se non altro non poteva trattarsi di uno spirito. Ai miei occhi, quando li aprii, si presentò invece la paffuta figura di una donna vecchissima, bianchi i capelli, bianco il vestito e bianche pure quelle piccole ciabatte ai suoi piedi del tipo che vendono in farmacia, nelle quali aveva trascinato rumorosamente il suo corpo largo di tartaruga rugosa. Che fosse uno spirito davvero? Ma dove si era mai sentito di uno spirito corpulento e, per di più in ciabatte?
– Ehhh – la vecchia agitò una mano nell’aria densa, annuendo con aria seria – eeh si, giovanotto…
– Parla con me? Perché, guardi, io sarei, cioè sono, una ragazza…
– Sa? Quando Sigmund Freud incontrò il suo ammiratore Salvador Dalì io c’ero!
– Ma dai! – tornai a stendermi indolente: non era uno spirito, era solo una vecchia che aveva perso qualche lunedì. Peccato. Ma la incoraggiai, dopotutto mi piacevano gli anziani, soprattutto quelli che raccontavano storie sconclusionate, quindi le dissi gentilmente: – Mi racconti.
Sorrise sdentata al giovanotto immaginario nella sua testa. Sarà stata quasi cieca e forse pure un po’ sorda: che il mio incoraggiamento doveva esserle arrivato alle orecchie come un brusio indecifrabile lo dedussi dal fatto che aveva aggrottato le narici, come a cercare di annusare le mie intenzioni. L’odore evidentemente non le dispiacque perché proseguì:
– Quando Sigmund Freud incontrò il suo ammiratore Salvador Dalì io c’ero! Era il 1938, la stessa data di oggi, il 19 luglio. Era stato quell’austriaco, all’epoca era uno scrittore famosissimo, oggi è ormai dimenticato dai più, Stefan Zweig si chiamava, a presentarli. Era un uomo tanto gentile, con quegli occhi buoni dietro gli occhialetti tondi e le sue idee pacifiste… si era lasciato convincere da Dalì ad organizzare un incontro con Freud. Erano tempi elettrici. L’Europa sull’orlo della guerra, Dalì che aveva rotto con Breton e i parigini tutti, che lo accusavano di simpatie verso il nazismo. Quei francesi! Ma a lui la politica non interessava; prendeva molto più sul serio sogni e deliri, insomma quello che oggi – dopo Freud, ahimè – chiameremmo inconscio. Io facevo la modella, sa? Lasci stare ora, tutta rughe e chili sono diventata. Allora facevo la modella e la mia figura era così sottile che i pittori potevano catturarla col pennello, ma io ero così leggera che tornavo a fuggire. Ma anche da Parigi corsi via e precisamente con Dalì, verso Londra, nel 1938. Avevo vent’anni, ero una fata e non appartenevo a nessuno. Dalì lo capì, lo apprezzò e per qualche tempo dividemmo il nostro cammino inquieto. Non si faccia strane idee, caro mio!, con noi c’era anche sua moglie Gala, ed entrambi mi accolsero con amicizia. Ecco com’è che andò. Ora, lei deve sapere, giovanotto, che per i surrealisti Freud era un dio, o almeno un profeta. E per tutta risposta Freud odiava di cuore loro e la loro arte. Più veniva osannato, più li trovava una banda di cialtroni ubriaconi e pazzi senza possibilità di cura. Fu solo grazie a quello Zweig dagli occhi gentili che quel giorno si decise a fare un’eccezione e a concedere a Dalì un appuntamento in un caffè, nulla di più. Ma a Salvador tanto bastava: dare un volto a quel padre. Quel giorno persino Londra splendeva al sole di luglio…
Ero a bocca aperta. Che la storia fosse vera oppure no, ormai mi interessava poco. Delle sue parole non potevo dubitare. Quella vecchia avrebbe potuto raccontarmi della volta che aveva danzato la quadriglia con Cervantes e io le avrei creduto. La interruppi per chiederle a voce altissima, per essere sicura che mi sentisse: – Che ci faceva Freud a Londra?
– Ovviamente sfuggiva ad Hitler. Povero Sigmund, in quell’anno la Gestapo aveva arrestato sua figlia Anna e aveva cominciato a fare irruzione nella sua casa, sempre più spesso, fino a quando lui era stato costretto a barattare l’esilio per sé e la sua famiglia con un’ingente quantità di denaro. Così era giunto a Londra, appena due mesi prima del nostro arrivo. Aveva ottantadue anni, era malato di cancro alla mandibola e molto meno ricco di un tempo, ma avessi visto che forza effondeva la sua figura quando con calma non studiata si sedette davanti a Dalì e lo ascoltò, in un perfetto silenzio, guardandolo negli occhi. Salvador gli mostrò un quadro che aveva dipinto, Metamorfosi di Narciso, la prima opera in cui aveva adottato il metodo critico-paranoico. Non sai cos’è? Non importa, non importa. Insomma, gli mostrò questo quadro e poi un articolo che aveva scritto per una rivista…ma Freud nulla, non parlava e lo fissava impassibile, non prestando la minima attenzione a quello che il pittore gli mostrava. Tutt’intorno c’era silenzio. Quell’aria magnetica che emanava dal loro tavolo aveva ammutolito tutti gli avventori del caffè, sembrava che lì si giocasse una partita a scacchi. Il silenzio era tale e quale a quello che c’era qui oggi, prima che io cominciassi a raccontare questa storia.
Il sole le era alle spalle e non riuscivo a guardarla negli occhi, questa singolare signora. Quanti anni doveva avere?
– Ho novantanove anni, sa, giovanotto? Ma quel silenzio me lo ricorderò finché campo!
Decisi che da quel momento in avanti avrei ascoltato il resto della storia ad occhi chiusi, magari così sarei riuscita a impedirle di leggermi i pensieri nello sguardo.
– Dalì aveva già fatto un ritratto di Freud, l’anno prima, ispirandosi a delle riproduzioni di foto pubblicate sulle riviste. Era un ritratto piuttosto ordinario, fatta eccezione per gli occhi, che aveva disegnato come due pozzi neri. Durante il loro incontro, in quell’interminabile silenzio che non saprei descrivere, Dalì prese un foglio e ritrasse di nuovo suo padre Freud: nonostante adesso lo fissasse finalmente negli occhi, di nuovo al loro posto con la penna segnò sulla pagina bianca due buchi neri. Freud non gli parlò neppure e prima di alzarsi e andarsene, disse a Zweig: “Non ho mai visto un tal prototipo dello spagnolo. Che tipo fanatico!”. Ma il giorno dopo, è cosa nota, gli scrisse una lettera per ringraziarlo di avergli fatto conoscere il pittore.
– E il ritratto? – stavo per chiederle. Ma lei mi anticipò: – Dalì fece un ultimo ritratto di Freud, nel 1939 e quella sì che è un’opera notevole. Questa volta dallo spazio tra gli occhi dello scienziato si solleva una voluta che sembra un punto interrogativo ma che diventa un’escargot – ci pensi? il cranio del padre della psicanalisi immortalato sotto la forma di una lumaca di Borgogna di quelle che i francesi cucinano in casseruola. Se vuoi mangiarne il contenuto devi estrarlo con uno spillo, altrimenti non c’è niente da fare, si rompe e non arriverai mai fino in fondo, così pare si spiegò Dalì al riguardo… Ma io ormai avevo lasciato lui e Gala a quel tempo…
– E il ritratto del loro incontro? – chiesi a voce più alta che potei, tanto che un uccello frullò via sopra la mia testa.
– Ah quello! Quello Freud non lo vide mai…
– E perché?
– Zweig si rifiutò di mostrarglielo.
– E perché?
– Bhè, mi pare ovvio. Freud sarebbe morto di lì a poco più di un anno e Zweig credeva, cioè aveva capito, che quel disegno fatto in un bar di Londra non era un ritratto qualunque, e non per la fama del suo autore. Da quel foglio Freud ancora vivo li fissava già morto. Insomma, giovanotto, quando Sigmnd Freud incontrò il suo ammiratore Salvador Dalì non c’ero solo io, giovanotto, ma c’era anche un gran silenzio strano, un’atmosfera densa e, invisibile tra noi, la signora morte. Fu quella che Dalì vide e immortalò. Per questo Zweig non volle mai mostrare il ritratto a Freud.
La voce tacque per quelli che mi parvero un paio di minuti prima che io tornassi ad aprire gli occhi. Il posto accanto al mio sulla panchina, ovviamente, era tornato vuoto.