Perché parliamo così tanto di immigrazione?

In tutta Europa, e da ultimo anche in Italia, soprattutto dopo avere appreso i risultati del 4 marzo, sembra che gli esiti elettorali vengano decisi e dipendano quasi esclusivamente dal modo in cui i partiti affrontano il tema dell’immigrazione: e non sarà una novità affermare che la destra, la destra nazionalista e non quella liberale, abbia il vento in poppa pressoché dappertutto, a differenza di una sinistra europea ridotta ai minimi termini, che affronta una crisi forse mai così profonda nel corso della propria esistenza parlamentare. Si è molto parlato (e si continua a farlo), da qualche decennio a questa parte, della percezione e della realtà, specialmente nelle vicinanze dei partiti progressisti, nella pubblicistica ideologicamente affine e nei think tank d’area, i quali dovrebbero servire al rinnovamento delle culture politiche e alla fornitura di contenuti intorno ai quali (poi, casomai, possibilmente, senza perdere la speranza) impostare la propria azione di governo. Non sembra che si sia riusciti, però, a ottenere risultati tanto soddisfacenti: le destre continuano a stravincere lisciando il pelo all’elettorato più impaurito (o irritato, o infuriato) dai fenomeni migratori e non osando certo mettere in discussione le percezioni popolari, che sono la precondizione stessa di quei successi elettorali; le sinistre continuano a straperdere, intestardendosi a questionare i sentimenti e le sensazioni degli abitanti delle periferie più disagiate e finendo, così, per risultare accolite di maestrini un po’ snob che delle città conoscono soltanto i quartieri altolocati, escludendo il percorso in taxi li condurrà negli studi televisivi dei talk show politici, laddove essi potranno esibirsi e risultare tanto tolleranti da far impallidire il ricordo di Papa Francesco.
Un elemento di realtà, però, è riconosciuto da tutti: le migrazioni sono imponenti, sono il fenomeno epocale del nostro tempo così come lo saranno del prossimo, con ogni probabilità. Quindi, a chi chiedesse le ragioni di un’attenzione al tema che sembrerebbe maniacale, non si potrà non rispondere che questa è, innanzitutto, la realtà, e che, di conseguenza, è piuttosto ovvio che la questione abbia guadagnato le prime pagine dei quotidiani e il posto d’onore nelle tavole rotonde dei programmi televisivi: che essa non sia destinata nel breve e medio periodo a scomparire, inoltre. Almeno per quanto riguarda la rilevanza degli eventi, insomma, la percezione non sembra entrarci molto: si discute tanto e tantissimo di politiche d’accoglienza, di integrazione, di respingimenti e rimpatri ed espulsioni perché sta avvenendo qualcosa di molto significativo, che non andrà estinguendosi nel corso delle nostre vite.
Poi, però, subentra un argomento più tecnico e politologico, che va oltre ciò che abbiamo detto e che potrebbe essere sintetizzato così: se non ci fossero i migranti, le destre dovrebbero inventarli e questo è ciò che accade, infatti, in tanti Paesi europei in cui la loro quota è talmente bassa da risultare ridicola, a fronte della popolazione complessiva. Eppure, simbolicamente, è facile anche in quei casi per i partiti più conservatori (o reazionari, o fascistoidi) far passare l’idea che l’integrità della propria nazione sia a rischio, e così le sue tradizioni, la sua cultura, i suoi costumi: a quest’analisi, tuttavia, continua a mancare qualcosa, qualcosa di più scomodo da accettare per chiunque si senta portatore di un’ideologia forte ed estrema e che si collochi, perciò, su di una delle due ali di un possibile parlamento, o più spesso al di fuori di esso.
Ciò che manca è la consapevolezza che la posizione che si assume nei confronti del tema dell’immigrazione è, oggi, l’unico elemento in grado di operare una distinzione tra l’estrema destra e l’estrema sinistra, la sola barriera che riesca a separare gli appartenenti ai due campi, i quali si sentirebbero oltraggiati a venire accomunati, a scomparire in una notte in cui tutte le vacche siano nere (o rosse): per rifuggire da quel pericolo fatale, da una confusione ideologica che causerebbe l’abbandono dei militanti più tradizionali, le forze estreme preferiscono accentuare i toni e dichiararsi o del tutto favorevoli all’apertura indiscriminata o del tutto contrarie addirittura al salvataggio, a qualsiasi misura umanitaria atta a consentire l’attracco sulle nostre coste degli “invasori” e l’accoglienza adeguata a chi abbia rischiato la morte per mare.
Ma l’inevitabile incontro, qua e là, è già avvenuto: l’unione rosso-bruna tra le estreme è reale, in alcuni casi, e si vadano a vedere i plausi che vengono riservati al marxismo sovranista di un Diego Fusaro dalla composita e bellicosa galassia del neofascismo o la restaurazione in senso nazional-stalinista del comunismo novecentesco per opera di Marco Rizzo. Gruppuscoli, entità residuali, si dirà: dei quali, paradossalmente (molto paradossalmente), si dovrebbe essere soddisfatti. L’alternativa alla fusione delle estreme, infatti, consiste nella creazione di tensioni artefatte che contribuiscono a terremotare ulteriormente le condizioni di una convivenza civile già fortemente compromessa: il grande antropologo René Girard, uno dei nomi che continueranno a spiccare dalla Babele teorica del secolo scorso, avrebbe parlato di un tentativo furibondo di differenziazione di due gemelli che fanno e faranno di tutto, pur di non rispecchiarsi l’uno nell’altro. La conseguenza di un tale e reciproco accanimento, però, non potrà che essere quella della loro identificazione: tanto più essi tenteranno di distinguersi, tanto più finiranno per somigliarsi e per coinvolgere entro questi vortici gemellari il resto della società. Certo, c’è da dire che Girard era un pensatore apocalittico che intravedeva in ogni dinamica sociale un fondo biblico ed evangelico: più illuministicamente, si potrebbe credere che continuare strenuamente a ragionare e a smascherare le radici di fenomeni del genere non possa che essere d’aiuto, in tempi in cui per offuscare la propria e l’altrui mente basta un attimo, la lettura di un qualsiasi post indignato sui nostri social di riferimento o la chiamata alle armi del capetto politico di turno.