L’esperienza: un’altra idea di mostra, intervista a Claudio Mazzanti

Ho incontrato Claudio Mazzanti una mattina dello scorso giugno, all’interno del seicentesco Palazzo Belloni, lo spazio espositivo inaugurato nel 2016 che cerca di portare a Bologna un nuovo concept artistico e un’offerta culturale svincolata dai canoni tradizionali. La prima di queste esperienze, di cui Claudio – presidente di Loop, eccellenza italiana nella progettazione di tecnologie interattive applicate all’arte e al design – ha curato i contenuti, è la mostra Dalì Experience (tanto sui generis da aver ospitato nel suo catalogo anche un nostro racconto dell’incontro tra l’artista catalano e Sigmund Freud), mentre domenica prossima, 22 ottobre, si chiude il secondo esperimento espositivo, Bologna experience. Non è appropriato parlare di mostre nel senso tradizionale del termine: si tratta di percorsi, narrazioni, racconti che tentano di restituire lo spirito, l’immaginario, l’impalpabile genius loci della città del tortellino, delle due torri e di Gianni Morandi e il genius artistae del celebratissimo surrealista catalano.
Dalì Experience, Bologna Experience; il filo conduttore è chiaro: un’altra concezione della mostra, l’esperienza immersiva preferita a una fruizione tradizionale.
Si, una diversa concezione non solo dell’arte, a meno che non si intenda questa parola in senso molto molto allargato. L’idea è proprio quella di cominciare a sperimentare un modo nuovo di fare mostre. Non vorrei che sembrasse una rivoluzione, perché in realtà non lo è: il multimedia, l’interattivo, l’attivazione del visitatore sono ormai delle realtà in tanti campi.
Da dove nasce questa esigenza?
È figlia del tempo: ci sono i mezzi che lo consentono; c’è un’abitudine, ormai in tutto quello che facciamo, ad essere attivi, a partecipare, a volersi porre come soggetti coinvolti. Il tempo delle lezioni passive e frontali è ormai passato persino all’università, che pure è il regno della didattica tradizionale. A dare il via a un nuovo corso nel modo di immaginare le mostre sono state soprattutto due tipologie di eventi: quelli tecnico-scientifici – non a caso, soprattutto all’estero, visitatissimi dal pubblico – che si predispongono dall’inizio a un coinvolgimento sperimentale e i cosiddetti parchi di intrattenimento (penso, ad esempio, all’Expo), una modalità percepita come prettamente ludica, sebbene spesso veicoli contenuti che tendono a passare in secondo piano rispetto allo spettacolo, che si parli di cibo o sviluppo sostenibile.
Nei musei, nelle mostre d’arte tradizionali, l’abitudine al coinvolgimento sta entrando a fatica e marginalmente. Non che sia assente; c’è, ma è trattata come un accessorio, un giochino da inserire in una stanza, alla fine del percorso, come premio per il bravo visitatore che ha letto tutte le didascalie e ascoltato tutte le audioguide. La nostra convinzione è che invece questi strumenti possano e debbano diventare un elemento strutturale che aiuti il visitatore a coinvolgersi nella mostra. Sono consapevole del rischio che si possa passare dall’altra parte, che tutto diventi un gioco, che si perdano i contenuti più densi e le riflessioni culturali più attente. Ma qui sta la sfida: riuscire a cercare di tenersi in equilibrio tra queste due componenti, il gioco e la didattica.
Un bilancio della Dalì Experience. Considerata la tipologia inedita dell’evento, qual è stata la ricezione da parte degli spettatori?
Partiamo dal presupposto che, con questa mostra, lo spazio di Palazzo Belloni veniva lanciato per la prima volta e che creare un’identità di un luogo, collocarlo nell’immaginario delle persone e della città è un’operazione che richiede del tempo e l’attivazione di tutta una serie di meccanismi. Considerato questo, i risultati sono stati incoraggianti e il numero dei visitatori significativo.
Le reazioni sono state diversificate, com’era normale e giusto che fosse. Se non ci fosse stata un po’ di diffidenza, del fastidio e qualche naso storto avremmo fatto esattamente ciò che la gente si aspettava e dunque niente di nuovo. Nel caso di Dalì Experience, sebbene non ci fossero gli olii, le opere di pittura più famose, avevamo numerose sculture e opere grafiche (può deludere qualcuno, ma tutte le mostre sono selezioni). Per cui la parte interattiva, multimediale, per coloro che erano interessati esclusivamente alle opere, poteva anche passare in secondo piano. Ma già nella Bologna Experience non ci sono opere esposte e, con le mostre successive, questo percorso diventerà ancora più deciso, creando una ancora maggiore divaricazione tra le reazioni di coloro che vengono al museo per studiare, leggere e imparare e coloro che si lasciano trasportare. Anche per noi si tratta di un percorso in itinere e non siamo ancora convinti di essere arrivati a una soluzione perfetta, un po’ perché siamo in fase di sperimentazione, un po’ perché ci sono dei vincoli di spazi. Per noi la cosa più importante è cercare di portare qualcosa di nuovo, diverso, originale nel mondo delle mostre, che tende a riprodursi in modo ancora efficace eppure abbastanza stanco.
Ascoltandoti, mi pongo una domanda radicale: qual è lo scopo ultimo, o se preferisci la ragione prima, per cui re-immaginare l’esperienza della mostra? Che cosa aggiunge questa nuova maniera rispetto a quella tradizionale?
Vediamo, se ben ricordo, c’è una citazione che Bruno Munari prende da Confucio che dice: “Ascoltando dimentico, leggendo ricordo, facendo imparo”. In un’esperienza così limitata nel tempo come quella di una mostra, quella di avere una funzione didattica approfondita, in cui il curatore debba trasmettere la sua vasta conoscenza in un paio d’ore di visita o in un corposo catalogo da riporre su uno scaffale, è una pretesa di facciata. Si tratta di un rituale con una serie di regole specifiche, una religione laica con un santuario, un sacerdote e degli adepti che ascoltano in silenzio, in un’atmosfera di sacralità, senza toccare le opere (non si può toccare l’altare!). Come tutti i rituali, anche questo è ripetitivo e si subisce. La didattica delle mostre rischia così di assomigliare alle preghiere in latino che si imparavano a memoria e di cui non si capiva il senso. Noi vogliamo forzare la gente a impegnarsi in maniera attiva, a porre un’attenzione diversa nei confronti di quello che vede. Non significa pretendere di essere più approfonditi, ma cercare di veicolare l’apprendimento, la ricezione di messaggi culturali attraverso il divertimento, che troppo spesso nella cultura tradizionale è visto come uno strumento negativo. Oggi sappiamo che il coinvolgimento, la partecipazione attiva, il trasporto coadiuvano l’apprendimento: questo nuovo modo di fare mostre può fornire stimolti diversi al visitatore, anche per un approfondimento successivo. Poi c’è un secondo aspetto, per noi di particolare importanza: la scelta di trattare le mostre non come luoghi di sola memoria ma come fucine di produzione di nuove opere, situazioni, vere e proprie opere d’arte, installazioni, che possano ispirarsi al tema della mostra e creare a partire da ciò che già esiste. Anche con Dalì abbiamo fatto una cosa di questo genere: abbiamo creato istallazioni ispirate alle opere in mostra dell’artista. Si tratta di una ri-creazione, una parola che non a caso con il divertimento e il coinvolgimento ha molto a che fare. Trattare le mostre, gli autori come cose vive, non come oggetti da esporre; farne materiale con cui giocare a re-inventare: questo permette di arricchire l’esperienza del visitatore e, in fondo, consente a noi curatori di esprimere la nostra creatività.
In questo senso, nel caso di Dalì, mi sembrerebbe che il contenuto sia venuto incontro alla forma, nel senso che un autore del genere permette come pochi altri di giocare, creare, re-immaginare.
Certo, sicuramente. Sebbene io ritenga che sia un’operazione che si debba poter fare con tutti, sono consapevole che se avessimo fatto una cosa del genere con un Raffaello o un Morandi, sarebbe stata più difficile da far passare. Difficilmente qualcuno si può permettere di venire a contestare il fatto che si faccia del surrealismo con un surrealista. Dalì è stato un dissacratore, non tanto nelle sue opere quanto nel suo atteggiamento, nella sua personalità e nelle sue sperimentazioni e questo ovviamente ha richiesto meno giustificazioni da parte nostra e ha reso la nostra operazione più digeribile da parte del pubblico.
Rendere invece in una mostra l’esperienza di una citta non è un po’ paradossale? E’ possibile imbottigliare il vento?
E’ fortemente paradossale. Perchè entrare dentro a un palazzo quando fuori c’è la città e posso sperimentarla con i miei sensi? Il paradosso è grandissimo e questo non solo non mi crea problemi, ma mi stimola. Da tempo noi lavoriamo sul tentativo di coniugare tradizione e nuove tecnologie (se questo termine ha ancora un senso): realizzammo anni fa un cartone animato 3D in dialetto bolognese, abbiamo fatto installazioni su una torre medievale, in Piazza Maggiore, abbiamo curato il padiglione del comune di Bologna all’expo di Shangai. Avevamo l’esigenza di riuscire a coordinare questa coniugazione di storia e narrazione contemporanea in un luogo espositivo. Non si vuole avere la pretesa di imbottigliare l’esperienza di una città: non basterebbe una vita per raccontarla, figuriamoci una mostra. Lo stesso però vale con musei storici o Urban center. La vera differenza è che qui cerchiamo di mostrare aspetti della città legati al passato che abbiano una ricaduta sull’oggi e guardino al domani, cose vive, fruibili. Tentiamo di raccontare in un modo che assomiglia a quello di un romanziere che seleziona personaggi, simboli, emblemi, raccontati in una forma che possa sollecitare l’interesse delle persone. In più, spesso una città è poco conosciuta anche da chi la abita. In questo caso abbiamo cercato di far scoprire una serie di cose normalmente poco visibili: dai racconti delle persone a riprese di luoghi inaccessibili o poco noti. Per noi il risultato ideale è che il visitatore esca dalla mostra divertito, dopo aver fatto nuove scoperte e, soprattutto, con la curiosità di andare ad approfondire gli stimoli ricevuti.
Il pennello, lo scalpello sono tecnologia. L’aspetto digitale, informatico ha reso tutto ancora più riproducibile di quanto Benjamin dicesse ai suoi tempi. Di tutto questo grande e, in qualche modo giustificato, dibattito tra arte e tecnologia, non sento grande pressione. L’arte è uno strumento di ricerca: non esiste arte che faccia qualcosa che è stato già fatto; se non c’è ricerca, possiamo parlare di artigianato, ma certamente non di arte. Se l’arte deve cercare nuove modalità espressive, non può che farlo con i mezzi che l’epoca mette a disposizione. Sicuramente un’arte che si collega alle tecnologie digitali e interattive perde parte di quella sua sacralità perché il pezzo non è più unico, il visitatore non è più distanziato, l’opera può cambiare in funzione allo spettatore. L’oggetto artistico, a maggior ragione quando non c’è più un oggetto ma un ambiente, una situazione in cui lo spettatore è immerso – e questo ne cambia enormemente la percezione – perde la sua sacralità. Non so se sia un fatto positivo o negativo; quello che so è che i tempi sono questi e questa la direzione nella quale sta andando il mondo. Abbiamo il web 2.0 in cui è la gente produce i contenuti; abbiamo l’arte contemporanea in cui è lo stesso spettatore che diventa parte integrante dell’opera.
Qualche anticipazione sui progetti futuri?
Nuovi stimoli stanno nascendo dal fatto che quello che stiamo facendo a Bologna susciti interesse altrove, sia per quanto riguardala mostra su Dalì che stiamo pensando di proporre in altri spazi, forse in maniera radicale solo nella sua parte interattiva, sia per quanto riguarda il format della Bologna experience. La prossima mostra a cui stiamo lavorando è abbastanza particolare, sull’archetipo di muro: vorremmo raccontare le diverse evoluzioni di questo oggetto, le valenze semantiche che ha assunto nel corso della storia dell’umanità, la sua portata simbolica, l’ambivalenza del suo statuto di oggetto che divide e allo stesso tempo protegge, dalle mura di Gerico alla Grande muraglia cinese a tutti i muri e le mura di oggi.
Un assaggio di Bologna experience per i lettori di Inkorsivo?