La tata che fotografò l’America

Non so se vi piaccia la fotografia ed è possibile che guardare foto non vi entusiasmi o non vi interessi affatto. Anche in questo caso, vorrei comunque che vi lasciaste raccontare la storia di Vivian Maier, perché è una di quelle incredibili storie in cui talvolta ci si imbatte e di cui ci si innamora.
Vivian era una tata. Aveva cominciato a svolgere questa professione a partire dagli anni Cinquanta, per le famiglie ricche di Chicago, nell’America del dopoguerra. Continuò a farlo per tutta la vita, nel più completo anonimato. Pare fosse un tipo riservato fino al mistero, piuttosto taciturno, che vestiva abiti maschili e che simpatizzava per idee socialiste e femministe, a quanto raccontano i suoi bambini di allora che, ormai adulti, si ritrovano a dover rispondere alle domande di giornalisti di tutto il mondo a caccia di notizie su colei che si è rivelata essere una delle migliori fotografe del Novecento.
Di lei raccontano anche che girava sempre con una Rolleiflex e che scattare fotografie era una passione irrinunciabile, quasi una mania. Nei fine settimana liberi dal lavoro si avventurava in viaggi solitari, accompagnata solo dalla sua macchina fotografica: era un breve tuffo nelle esistenze degli altri, che scorrevano dinanzi ai suoi occhi in quel fiume di vita riversato per le strade, immobilizzato e fissato dalla luce sui negativi, che oggi riesce a raccontarci un’America che non c’è più.
Vivian la bambinaia continuò così ad accumulare pellicole su pellicole, fotografando fino al sopraggiungere della vecchiaia. Allora, come tutti, andò in pensione, dismise i panni della bambinaia, dopo decenni di onorato servizio, e si accomodò in periferia, dove si arrangiò a vivere il resto dei suoi giorni con l’ausilio del poco denaro messo da parte. Tra le altre cose, si concesse il lusso di prendere in affitto un box. Vivian, infatti, aveva un’altra mania: collezionare oggetti, sottrarli all’oblio, proprio come tentava di fare con gli istanti catturati con la sua macchina fotografica. Per lei, abituata a lavorare con i bambini e a vederli crescere, forse il tempo e la memoria dovevano avere un valore particolare; doveva sentire con una sensibilità speciale l’inesorabilità dell’uno e la necessità dell’altra. Perciò quando non ebbe più spazio nella sua piccola casa sufficiente a salvare le cose dal tempo, non si arrese e, anzichè buttare via ogni cosa, si risolse a prendere in affitto il box e a depositarvi tutto dentro.
Un giorno l’ex tata non ebbe più nemmeno i soldi per pagare l’affitto del box; pertanto, in conformità alle leggi d’oltreoceano, tutto quello che vi era all’interno finì all’incanto e fu comprato ad un’asta da un tale John Maloof. Era il 2007. John si imbatteva – inconsapevole – in un vero e proprio tesoro. Dentro gli scatoloni di quella che sembrava essere solo una nanny qualsiasi, giacevano una marea di negativi e qualche foto stampata in piccolo formato. In tutto, più di centomila scatti, la maggior parte dei quali mai visti da alcuno, nemmeno dalla sua autrice. Vivian, infatti, non aveva sviluppato che il dieci percento del suo materiale, forse per mancanza di denaro. Maloof seppe di trovarsi dinanzi a dei capolavori e si mise alla ricerca di Vivian Maier, di cui non sapeva nulla: la trovò soltanto nel 2009, nei necrologi di un giornale locale. Vivian si era spenta in solitudine, ad 83 anni, nel più completo anonimato.
Da allora, la storia di Vivian è diventata un caso (sono stati girati ben due film sulla sua vita, The Vivian Maier Mistery, della BBC, e Finding Vivian Maier, girato dallo stesso Maloof e nelle sale italiane il 17 aprile prossimo, qui il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=VD_g6rFcE9I) e le sue fotografie sono state esposte in diverse mostre in giro per il mondo, di cui l’ultima ancora in corso – e gratuita – al Jeu de Paume di Tours, Francia.
Le sue fotografie sono quasi tutte in bianco e nero e tutte scattate per strada a passanti, bambini o alla propria immagine riflessa negli specchi. Quello che mi ha lasciato incredula è come una fotografa che guardava così poco il proprio lavoro sviluppato possa aver creato delle immagini così impeccabili per composizione, inquadratura, profondità. E c’è un’altra cosa: poichè abbiamo i suoi negativi, sappiamo che non fotografava mai due volte lo stesso soggetto. Non c’era posto, nell’idea di fotografia di Vivian, per la ripetizione. Il momento era uno e sacro. La foto il mistero di quel momento catturato, racchiuso nelle bobine arrotolate e abbandonate in un box di periferia. Guardandole, ormai svelate a tutti, non ho potuto fare a meno di subirne l’incanto: oltre ad ammirarne la bellezza semplice e perfetta, a stupirmi di un talento tale da non sbagliare uno scatto, ho sentito l’intensità di uno sguardo esercitato nel silenzio dell’intimo o nel rumore delle strade affollate, la solitudine vagabonda eppure innamorata della vita, la grazia nascosta dietro un volto qualunque.