Casting JonBenet, provini per un omicidio

La somiglianza tra la bambina dei primi fotogrammi e JonBenét Ramsey è abbastanza forte. Guardandola, in molti avranno pensato ad un angioletto in versione americana. Capelli biondi e carichi di boccoli, occhi cerulei, la pelle chiara da bambola di porcellana, ma con lo scarto di bellezza in più di ciò che è vivo su ogni oggetto inanimato. Perfetta nel ruolo di reginetta di bellezza, non si discute. La sua apparizione davanti alla telecamera, truccata e sorridente nell’abitino dei colori della bandiera nazionale, non ha nemmeno nulla del grottesco che un osservatore extra-USA può trovare in questo genere di competizioni. In lei solo grazia, freschezza e purezza in formato 6 anni. Il tempo di cominciare a metterla a fuoco nei dettagli e la sequenza si interrompe: la bambina diventa brutalmente assenza, il macabro fulcro invisibile di tutto il seguito.
A distanza di più di 20 anni, il caso giudiziario in cui affonda le radici questo dibattuto documentario crime (su Netflix dalla primavera di quest’anno) rimane senza un colpevole. L’omicidio e il ritrovamento del corpo senza vita di JonBenét nello scantinato della sua casa in Colorado, nel dicembre 1996, rimangono tutt’oggi avvolti in un mistero asfissiante. È la vicenda ideale per un docufilm. A partire dalla giovanissima età della vittima e dal gigantesco clamore mediatico che i fatti hanno sollevato a Boulder (presumibilmente divampato nel giro di una manciata di ore da un capo all’altro degli States). Passando attraverso la gestione approssimativa e goffa delle indagini da parte delle forze dell’ordine locali. Fino ai dettagli più oscuri e intimi della vita familiare dei Ramsey, alle ambiguità profonde, alle incongruenze e ai sospetti che, con una rapidità da vero thriller magistrale, passano dall’uno all’altro indagato. Ipotesi su chi abbia ucciso la piccola JonBenét ugualmente verosimili e spaventose, sia per modalità sia per movente.
Come contrappeso alla difficoltà di orientarsi nel gioco di specchi dei possibili responsabili dell’omicidio, c’è la presenza granitica dell’”americanità“. Al di là della cornice geografica, gli Stati Uniti forniscono elementi di costume funzionanti come catalizzatori eccezionali per la suspense voyeuristica e morbosa che un delitto rimasto in sospeso esercita solitamente sull’opinione pubblica. Sono elementi che spiccano con evidenza dalla sequenza di immagini: la conferenza stampa tenuta dai genitori, il libro scritto dalla signora Ramsey sull’accaduto, la mazza da baseball come possibile arma del delitto…Della serie: “se non sembrasse abbastanza realistico, eccovi serviti”. Questa fedeltà ai dettagli, valorizzata da un uso intelligente e riuscito delle luci, riesce a mantenere l’attenzione alta e costante, anche quando l’istinto suggerirebbe di premere “Stop” per prendere fiato.
Per arrivare al vero punto di forza di “Casting JonBenet”, è utile ripartire dal titolo, “Casting”. La modalità narrativa prescelta dalla regia di Kitty Green è originalissima nello stuzzicare il pubblico da una direzione insolita, usando un pretesto geniale: dei finti provini per un futuro immaginario film sul caso Ramsey, aperti agli abitanti della stessa cittadina della vittima. Lo spettatore assiste in prevalenza ad una serie di interviste, costruite su domande studiate su misura per il candidato attore di turno. È gioco forza, perciò, che la ricostruzione generale sia allusiva e incompleta, a tutto guadagno del coinvolgimento di chi si trova davanti allo schermo. La grande intuizione della regista è l’aver sfruttato a fondo la spontaneità senza filtri di chi ha vissuto i fatti a distanza ravvicinata. Mano a mano, ogni racconto individuale si colora di una sfumatura personalissima e si accorda con ricordi, impressioni e reazioni ai vari spezzoni delle indagini, influenzate squisitamente dalla vita privata di ciascun testimone indiretto della tragedia.
Green ha creato una cronaca corale da cui è riuscita a tener fuori anche il più piccolo granello di artificialità. Il suo obiettivo è lontanissimo dal voler soffiare sulle ceneri spente del caso Ramsey. Sotto la lente d’ingrandimento della regista c’è altro: la società americana contemporanea, per mezzo di un suo campione casuale, e anche l’impossibilità empirica di una narrazione oggettiva tout court, asettica. “Casting JonBenet” è una preziosa matrioska cinematografica: sotto l’apparenza del semplice thriller basato su una storia vera si cela l’esperimento psicologico e antropologico, che nasconde a sua volta un esercizio di giornalismo. Un nuovo record nell’accorciare la distanza tra racconto e verità.