Da grande voglio fare la regista

Realizzarsi. Prendiamo ad esempio qualche frase nei film di Scorsese. In The Departed Frank Costello dice “se decidi davvero di diventare qualcuno alla fine ci diventi” oppure Travis Bickle in Taxi Driver “in ogni strada di questo Paese c’è un nessuno che sogna di diventare qualcuno”. Concretizzare i propri sogni, magari quelli nati attraverso la visione di un film. A volte il sogno è essere colui (o colei) che racconta una storia, magari poi di ispirazione per qualcun altro. Lavorare nel cinema è un sogno abbastanza comune, ma in pochi decidono poi di dedicarsi anima e corpo ad un percorso così difficile e per niente scontato nella sua riuscita.
Maria Chiara Venturini, nata ad Arezzo, studi a Milano e poi il trasferimento a San Francisco dove ha studiato Motion Picture and Television alla Academy of Art University. Lo scorso 5 maggio ha vinto il Nxtup Fest di San Francisco nella categoria Music Video Creation and Production con il corto Bob in the Rain and the Lizard of Hope. Ora, conclusi gli studi, si fa largo tra altri giovani registi e chi invece si è accreditato. Troppo tardi per fare architettura o giurisprudenza, troppo presto per essere una cineasta, ma ha già qualcosa di interessante da dirci.
Partendo dalla domanda più basilare di tutte, perché hai scelto di intraprendere la strada del cinema ed in particolare della regia? Insomma molti giovani, sia ora che in passato, preferiscono ancora cimentarsi in studi che portino poi a professioni canoniche come l’architetto, l’avvocato o il medico.
Domanda basilare ma non semplice. Diciamo che da quando volevo fare lo scienziato pazzo a 10 anni a qualche anno fa non ho mai minimamente pensato di poter fare una professione canonica. Il regista è una professione jolly, qualcosa che da spazio a mille fantasie lavorative. Un giorno fai un film western e ti senti un cowboy il giorno dopo una dark comedy e ti immedesimi nella parte di becchino.
Guardando i tuoi lavori si può vedere la predilezione per lo stop motion, ci stai dicendo che Tim Burton ha lasciato un segno indelebile in te?
Più che Tim Burton ammetto che registi come Jan Švankmajer, Henry Sellick e Terry Gilliam mi hanno certamente invogliato a intraprendere la via dello stop motion. Ovviamente il mondo di Burton è una realtà che ammiro e in parte condivido nel mio immaginario.
Com’é la vita del regista, si sveglia la mattina e parte alla ricerca di ispirazioni fino a quando non decide di immergere la Ekberg nella fontana di Trevi come Fellini o c’è altro?
A mio parere i registi sono principalmente buoni osservatori. Fellini, anche durante i casting per i suoi film osservava migliaia di persone. Molte di queste non venivano scelte ma lui riusciva a estrarre dei particolari da alcuni di loro e prenderne spunto per lo sviluppo dei suoi personaggi: gli occhiali di un vecchio, la camminata di una donna formosa, l’accento di una nonna ecc. Io porto sempre con me un foglio e una penna in modo che possa scarabocchiare qualunque cosa catturi la mia attenzione per strada. Poi, in seguito, avviene una sorta di matrimonio spontaneo tra il tuo block notes e le tue storie personali. Da lì nascono le sceneggiature, alcune che vengono quasi subito abortite e altre che crescono e diventano film concreti.
Fosca è il tuo ultimo progetto per il quale hai anche lanciato un crowdfunding su Indiegogo, cos’é?
Fosca è la mia primogenita o meglio la prima figlia italiana. Da che era solo una piccola frase è diventata una vera e propria storia che andremo a girare a Roma questo fine agosto. Principalmente tratta di una dodicenne decisa a conquistarsi l’affetto del padre e dei due fratelli viziati. Così determinata che arriva a compiere un gesto potremmo dire quasi ridicolo, “auto-imbalsamando” il suo corpicino per assumere le forme esagerate dell’amata madre, venuta a mancare qualche mese prima, ma ancora idolatrata nel suo cofano in salotto.
Di burtoniana derivazione non solo lo stop motion ma anche gli argomenti. Per quale motivo tratti sempre di temi così cupi? Tenti di esorcizzarli, è una provocazione oppure non pensi siano così macabri, come se anche loro alla fine fossero brutti ma buoni?
Il mio scopo principale, non solo con questo progetto ma anche a livello generale, sia quello di far notare alle persone intorno a me che è possibile farsi una bella risata anche quando finiscono nei posti più oscuri. Anche se capisco lo scetticismo su un concetto del genere, secondo me è ridendoci sopra per un momento che il messaggio drammatico si fa largo nella mente già appesantita dalla quotidianità.
Oltre alla difficoltà del reperimento dei fondi per rendere vivo un tuo pensiero, qual è la cosa più difficile per un regista in erba?
Come in qualunque altro mestiere artistico la sfida più grossa sia quella di uscire dalla massa di migliaia di altri registi in erba. Farsi notare, in un ambiente dove l’anzianità professionale e la fama regna sovrana è una questione di spirito, stile ma anche un po’ di fortuna. L’opportunità della tua vita può passarti davanti agli occhi da un giorno all’altro, l’importante è di sbattere le palpebre il meno possibile ed essere sempre pronti a dire di sì.