Il futuro fa paura (secondo loro)

I cataclismi storico-sociali che si susseguono stanno mandano nel panico una parte di mondo, una limitata fazione di persone che si stanno seriamente preoccupando della caducità del nostro presente e, inevitabilmente, del nostro futuro. Per tanto ad aumentare l’ansia e le paure di questa gente arrivano sul piccolo schermo una massiva quanto interessante spedizione di serie tv di taglio distopico-futuristico in cui, seppur le singole storie dei protagonisti si chiudano (spesso) bene, per la Terra e le sue società non c’è proprio nulla da fare. Per quanto sia pauroso lo scenario che mostrano molte di queste rappresentazioni pseudo cinematografiche si sta coltivando sempre più intensamente un fitto gusto per il pericoloso, per il futuro che potrebbe (non) esserci: fra ansia e riflessioni a lungo termine lo spettatore capisce che spesso quello che si vede sullo schermo può veramente, un giorno, diventare realtà. Partendo dal culto di Blade Runner (1979) poi rinforzato con l’evergreen “1984” il distopico è stato propagato molto grazie alla letteratura e alla fumettistica, ma in quanto a materia televisiva, la recente The Handmaid’s Tale è certamente il più chiaro esempio di incrocio fra realtà utopica e probabile compimento di una certezza scientifica. Una serie tv ferma alla prima stagione in cui non c’è altro che dire se non eccezionale, sorprendente e purtroppo, sincera. “Il racconto dell’ancella” è un’opera telematica tratta dall’omonimo libro della scrittrice statunitense Margareth Atwood nel 1985, in cui già allora emersero i caratteri misogini e tetri di un futuro non troppo lontano in cui la società, oramai grande co-protagonista dei nuovi format targati Netflix (Black Mirror) o Sky (The Leftovers).
Le vicende che scorrono nei dieci episodi sono narrati linearmente ad eccezione di alcuni flashback che, come nell’ottava puntata, possono durare addirittura un episodio intero. Lo sviluppo della trama parte infatti dalla situazione principale, il vero tema del “Racconto dell’ancella”: la società futura chiamata Gilead a causa di danni ambientali soffre un terribile calo delle nascite, vicino allo 0%, e in questo scenario apocalittico l’elitaria società americana ha selezionato le uniche donne fertili e messe al servizio dei ricchi per dar loro dei figli. Una di queste “ancelle” è appunto Difred, originariamente June, che da mamma sposata e lavoratrice si è ritrovata al servizio di una famiglia altolocata in cui il marito è uno dei “Comandanti” della società, ovvero un capo d’alto lignaggio che ha parecchio potere sulle sorti politiche degli Stati Uniti. Le vicende hanno al centro innanzitutto il rapporto di Difred con se stessa e il suo ruolo, dato che uno dei topoi della serie è proprio l’alienazione femminile dettata da una misoginia di fondo, e non a caso la scrittrice Atwood è da sempre una gran sostenitrice dei movimenti femministi. In tutto ciò, mentre la vita nei dintorni di Boston rimane opaca e atavica, i tentativi di Difred di riabbracciare sua figlia e forse suo marito Luke sono ostacolati dai necessari servigi del suo nuovo ruolo, ovvero prestare il proprio utero fertile al padrone di casa che, con la moglie che assiste alla scena, pratica un’asettica attività sessuale con l’ancella.
Fra gli aspetti interessanti della serie c’è il mito biblico, il realismo creaturale per cui la catastrofica epidemia non è altro che il frutto dell’amoralità della condotta umana sulla terra e la punizione di Dio è appunto questa profonda crisi di “riproduzione dell’uomo”: in quasi nove ore totali i dialoghi sono fitti di riferimenti del Vecchio Testamento ( il passo di Rachele e Giacobbe, Genesi, 30) e ossequi pastorali (“Sia benedetto il frutto”). Con le comparsate di un “Occhio”, una sorta di associazione devota allo spionaggio della regolarità nello svolgimento della vita comune, e quindi molto pericolosi, il ruolo di Difred sottolinea la condizione di disagio dettata dalla riduzione a oggetto della donna, che non può ne leggere ne fumare, o anche solo guardare la tv, elemento che tra l’altro in tutta la serie non viene mai ripreso o menzionato. Con una colonna sonora non troppo raffinata e decisamente in secondo piano, le affinità di contenuto con un altro capolavoro simile che è Figli degli Uomini di Alejandro Inarritu non sono poi cosi tante, eppure, le società sono più o meno entrambe. Nel film del regista messicano la sterilità è totale e non esistono donne feconde se non in un caso, quello del filone protagonista, mentre in T.H.T la focalizzazione è sulla classe antropologica femminile, resa una setta dalla comunità dirigenziale americana che senza mezzi termini, in maniera estremista e dittatoriale, ha reso schiavi tutti gli uteri disponibili. Le ancelle sono vestite uguali, parlano allo stesso modo, fanno la spesa per i padroni negli stessi posti e soprattutto vengono punite per peccati capitali o disobbedienze regolamentari. La conclusione pronostica senza dubbio una successiva stagione, in Italia disponibile su Tim Vision nel 2018, e la critica già smania di accedere ai nuovi episodi dopo che la prima sequenza di puntate ha portato all’ideatore Bruce Miller ben tredici nominations agli Emmy e la vittoria dell’Emmy 2017. Tanti complimenti sono stati fatti anche alla protagonista Elisabeth Moss (Difred), vincitrice del premio come miglior attrice protagonista in una serie tv drammatica.
Che il fascino per The Handmaid’s Tale sia condiviso è comprensibile, dato che oltre al forte interesse distopico la serie è notevolmente apprezzabile soprattutto per il suo svolgimento narrativo, ma in ogni caso la generale cotta per le previsioni futuristiche è una tendenza generale. Il mercato delle serie tv offre oramai una vasta gamma di scelta di ogni tipo e genere, arrivando a disporre di una collezione quasi da cinema, eppure la selezione di questi prodotti è quantomai ricercata. La realtà distopica si differenzia da altre importanti opere come Stranger Things o The Young Pope per il quantum filosofico che ne sta alla base, per la loro essenza da captare fra le righe. In T.H.T il filo narrativo è sviluppato in un mondo irrealistico ma non abbastanza, perchè se è vero che difficilmente possa avventarsi sul genere umano una situazione tale, tanto è probabile che in futuro la società soffra di tali problemi e il fatto che la serie sia ambientata in un mondo architettonicamente e costumisticamente non diverso dal nostro fa entrare lo spettatore direttamente nella narrazione. Nell’opera di Miller come nella sua sorella Black Mirror in primis il futuro è lontano ma non troppo e in secondo luogo, gli stravolgimenti che danno sfogo allo svolgimento delle vicende non sono così fittizi e surreali da sfociare nel fantasy, o meglio, nella fantascienza più totale. Della serie mai come in Blade Runner. Con il “Racconto dell’ancella” e Black Mirror si entra in un filone in cui lo spettacolo è parte integrante dell’offerta allo spettatore, che una volta finita la visione pensa a quello che potrebbe veramente accadere un giorno e ragiona inevitabilmente se qualcuno, come lui, non sia diventato tanto filantropo come non lo era mai stato.