“L’inganno”: un’insipida black comedy di Sofia Coppola

L’inganno di Sofia Coppola è un film tutt’altro che «stupefacente». Eppure con quel dolly iniziale era partito tutto molto bene. Come pure la fotografia, molto curata, a tratti pulviscolare, patinata, cattura fin da subito e per tutti i 94 (lunghi) minuti. Ma è questo, forse, l’unico aspetto positivo de L’inganno. Perché se si analizza il film nel suo complesso di difetti ce ne sono tanti, troppi. Inspiegabile, a mio avviso, il successo al concorso del Festival di Cannes 2017, ossia il premio per la migliore regia.
Che dire, il film inizia anche bene. Le perplessità sorgono in itinere. Si ha la sensazione che sia tutto molto personale, inverosimile. Fors’anche un po’ monotono, se si guarda alla filmografia della regista. Ma capiamo cosa c’è che non va e perché. Partiamo infatti dal soggetto e dalla sceneggiatura. L‘inganno è l’adattamento cinematografico del romanzo A Painted Devil (1966) di Thomas P. Cullinan, opera già adattata alla pellicola da Don Siegel nel film La notte brava del soldato Jonathan (1971). Quindi la Coppola da un lato riadatta e dall’altro esegue un remake del film di Siegel. Ma in questa operazione ci sono alcune aggiunte e rimaneggiamenti che tuttavia rilasciano un risultato ambiguo, artificioso. Emerge un’eccessiva ostentazione a una tematica ormai iper-trattata, e che sembra fin troppo centrale (e centrista) nella produzione della Coppola.
La tematica del film tende a inabissarsi in un non-controllo di ideologia. Si costruisce tra una black comedy di un pur vaghissimo retrogusto shakespeariano e tra un più moderno e noioso thriller femminista. Un vero equilibrio è mancato, sembra quasi per capriccio. Ci troviamo, infatti, davanti a un thriller un po’ spurio, dove le caratterizzazioni psicologiche risultano alquanto discutibili. Dietro ai personaggi femminili si cela un pregiudizio che, più che femminista, definirei di deliberata e fastidiosa misantropia mista a black humor. Una misantropia alimentata dalla solitudine, da una formazione travagliata, tensioni, gelosie, castità sofferenti: tutte cose che s’intrecciano in un covo di serpenti. Cose di sicuro vere e documentate, nella storia dell’Ottocento, ma qui presentate male.
L’inganno appare molto sbilanciato sul piano dei contenuti, farraginoso in alcuni punti e superficiale in altri. Il tutto, infatti, provoca un drammatico appiattimento storico, vista anche la scarsa caratterizzazione degli attori secondari. Si aggiungano anche gli ormai triti cliché che risultano qui snervanti, e che interessano sia gli uomini che le donne. Se non dal punto di vista tecnico, non riesco a trovare elementi positivi. Nulla, infatti, c’è da dire sulla scenografia, sull’uso delle luci, sulle inquadrature, sempre molto pertinenti. Ma è meglio non parlare delle interpretazioni di Nicole Kidman, Colin Farrell, Kristen Dunst e Elle Fanning che rasentano quasi la soap opera. Forse solo Kristen Dunst riesce a entrare davvero nel personaggio, ma solo per la mimica facciale. Anche da qui emerge un lacunoso lavoro di regia, un lavoro tutto volto a saziare un desiderio personale più che cercare un compromesso tra funzionalità e verosimiglianza.
In definitiva, è un film che personalmente non consiglio agli amanti del cinema. Non c’è nulla di particolarmente accattivante. Un senso – se mai ne ha – si coglie a fatica. Tuttavia lo consiglio a chi segue i film giusto per la trama, o agli amanti dei romanzetti rosa senza infamia e senza lode. Anzi: per fare dello black humor, lo consiglio a quelle signore di una certa età che si vogliano liberare dal loro caro vecchio amato consorte.