La schiavitù della narrazione

Il panorama culturale mondiale è indubbiamente in un momento estremamente florido. Indipendentemente dalla qualità ci troviamo di fronte ad una diversificazione e ad una tale quantità di opere da permettere a ciascuno di noi di trovare il prodotto più congeniale, che più si possa sposare con i gusti, le priorità, le abitudini di ogni singolo cittadino del pianeta terra. Come non a caso la sovrapposizione tra opera, parola che a primo impatto ispira un sentimento artistico e più alto, e prodotto, al contrario brutta e cattiva e figlia del mercato, è ormai pienamente una realtà; è sempre più palese la deriva dell’azione artistica verso una marcata, se non esclusiva, funzione di intrattenimento, slegata da qualsivoglia ricerca nel campo proprio del mezzo di riferimento. L’apertura ad un pubblico sempre più ampio, con il conseguente normale abbassamento della capacità di lettura dei livelli più “specialistici” di un’opera, ha inevitabilmente portato ad un appiattimento e una semplificazione generale dei vari linguaggi. Questo è ovvio: se il tuo obiettivo è il mercato e il mercato così allargato non ha gli strumenti di decodifica adatti al tuo linguaggio, per vendere quello che è a tutti gli effetti un tuo prodotto devi necessariamente rendere tutto più semplice e puntare massicciamente sul livello più comprensibile per tutti, la trama. Che si parli di cinema, di fumetti, di videogiochi o, paradossalmente, addirittura di letteratura, c’è una tendenza verso l’assoluto dominio della narrazione che cancella i tratti caratteristici di ogni mezzo espressivo per ridurre il tutto ad un generico “vediamo cosa succede”. È più facile per tutti seguire i fili significativi di un’opera basandosi esclusivamente sulla trama. È la cosa più evidente, più logicamente comprensibile anche per chi non mastica particolarmente i principi di un determinato linguaggio, ma è anche l’operazione più pericolosa da intraprendere, perché non solo impoverisce una singola arte, ma rischia di creare un’enorme sovrapposizione tra i diversi veicoli espressivi.
Probabilmente l’inizio di questa tendenza è da far coincidere con l’esplosione delle serie tv, che non casualmente non avevamo citato. Il proliferare delle serie televisive e il progressivo plasmarsi della pratica del binge watching, o anche detta assuefazione da serial che spinge a guardare episodio dopo episodio fino alla morte un’intera stagione per sapere come va a finire, hanno messo al centro della scena la sola cosa che poteva spingere il pubblico ad essere fedele ad un prodotto protratto nel tempo, e a non farlo disperdere saltando da una cosa ad un’altra: la storia. Se creo una storia interessante vado a intaccare la più profonda delle caratteristiche umane, la curiosità. Siamo curiosi, pettegoli, voyeur, e nulla scatena la nostra ossessione come il sapere come si svolgerà una determinata storia. Chiariamo, è una cosa che funziona così da sempre, solo che le serie televisive hanno enormemente ingigantito la il problema. Che siano allora delle entità malvagie? No, solo che si sono trovate nel momento giusto. L’essere umano del XXI secolo ha generalmente più tempo libero, sta mediamente più in casa, ha a disposizione internet ed è completamente dentro l’ottica televisiva, sua vera compagna da mezzo secolo. Le abitudini che una volta erano per pochi, e che poco spazio avevano nella giornata media di una persona sono ormai la routine. Quale mezzo se non le serie allora potevano attecchire così bene. Nella loro vita, nel loro sviluppo e nella loro ascesa le serie ci hanno insegnato che non importa come racconti una storia, ma cosa racconti, anzi che l’importante è proprio raccontare. Il resto sono orpelli inutili, esagerazioni, optional, cose per esperti.
Messaggio che è stato ben colto un po’ da tutti i produttori di cultura, con una spasmodica corsa all’adeguamento al meccanismo televisivo di base. Che sia cinema, fumetto, videogame o letteratura, quello che è avvenuto è stata una riconversione seriale. Il cinema, sin dalla sua nascita immagine in azione, mescolanza di linguaggi per eccellenza e principalmente mezzo audiovisivo, ha messo in piedi una macchina seriale incredibile come quella Marvel. Film intesi come lunghi episodi di una super serie televisiva trasmessa sul grande schermo, completamente piatta nel suo linguaggio cinematografico, quasi priva di voce autoriale, dove il regista, primo e vero artista del mezzo cinema, è praticamente inesistente, così che esperienze audiovisive fortissime, forse fin troppo estreme come l’ultima opera di Michael Bay sono bocciatissime perché prive di una trama logica, o un film di Godard è bollato come noioso perché dallo svolgimento strano ma normale. I videogiochi allo stesso modo stanno vivendo una proliferazione di esperienze narrative prive della sostanza principale, il gameplay. Giochi come Super Mario, Dark Souls, Prey, sono considerati dalla grande massa come difficili, noiosi, incomprensibili, perché privi di una vera trama, di una storia coinvolgente che tenga attaccati allo schermo; privi di colpi di scena degni di un blockbuster. Eppure sono capolavori di gameplay, spingono la creatività e l’ingegno dei rispettivi game directors oltre i limiti, proponendo soluzioni di gioco sempre nuove e sorprendenti. Gioco, non storia. Stesso discorso per i fumetti dove l’impianto grafico, le soluzioni creative di impaginazione, di rappresentazione, di colorazione sono da leggere come abbellimenti superflui se non c’è una trama. Il disegno, parte fondante del mezzo è ignorato e identificato esclusivamente in funzione di una storia da raccontare. Narrazione che almeno della letteratura dovrebbe essere la pietanza principale si potrebbe pensare. Anche qui il discorso è un po’ più articolato. Questa schiavitù della trama ha completamente allontanato il focus dall’utilizzo della lingua, dalle soluzioni con cui la storia viene raccontata, portando ad un generale interesse esclusivo per la qualità della storia, a discapito della qualità della scrittura, cosa assolutamente diversa e da non confondere. Un esempio: saghe indiscutibilmente fondamentali per questi anni come quella di Harry Potter hanno significativamente segnato l’immaginario collettivo con una storia intrigante, di facile immedesimazione, e che sicuramente funziona, ma è innegabile come la scrittura della Rowling non vada oltre la banale mediocrità.
Questo non vuol dire che ci troviamo di fronte ad una totale assenza di qualità, così come non vogliamo dipingere le serie televisive come il male, assolutamente. La sperimentazione e lo studio dei media continuano fortunatamente ad esistere, ma questa tendenza si fa sempre più pressante, con il rischio di avere sempre più prodotti dalla riuscita sicura, omologati, appiattiti ad una decodifica semplicistica, perché alla fine sempre di soldi si arriva a parlare. Quell’equilibrio tra le parti che rendeva così affascinanti ed uniche le varie forme dell’espressione umana gradualmente sembra scomparire, finché alla fine guardare un film, giocare ad un videogioco o leggere un romanzo sarà la stessa cosa, perché alla fine quello che conta è sapere come andrà a finire.