Il peso di un nome

Mettiamo subito le mani avanti, che sennò non ne usciamo vivi. L’argomento è estremamente complicato, implica una commistione di pareri soggettivi e giudizi obiettivi e quanto più possibile oggettivi, e solleva una quesitone forse difficilmente esauribile nel giro di un tot di battute. Però discuterne è necessario, e un ragionamento collettivo e costruttivo può solo fare bene. Si, ma quale è il punto, direte. Adesso ci arriviamo. Pensiamo a cosa è che prima di tutto contraddistingue il nostro mondo oggi, così come nell’ultimo mezzo secolo almeno. Internet? Quasi; ne è in effetti un’emanazione, un mezzo funzionale. Ciò che più di tutto descrive e governa la civiltà simil-contemporanea, quindi occidentale e per riflesso mondiale, è la comunicazione; in particolare la comunicazione commerciale, quindi il marketing.
Quale che sia l’ambito, il prodotto, o l’azione che si voglia prendere in esame, scopriremo che nella sua essenza primordiale è possibile farlo risalire ad un nucleo commerciale, che trova la sua massima sintesi e perfezione nel brand. Il brand è il marchio, il nome, l’immediatezza; è il significante che molto spesso riesce a farsi significato stesso. Non ce ne accorgiamo forse, ma viviamo immersi e circondati dai brand, fautori di una semplificazione che ci permette in qualsiasi momento di sapere di cosa stiamo fruendo. Kinder ci promette dolci cioccolattosi e belli dolci, così come Ikea oggetti di arredamento dal design moderno e un prezzo accessibile. Promesse che per altro vengono sempre mantenute, perché convenienti prima di tutto al brand stesso, capace così di perpetrarsi e non potere forza attrattiva. Questo meccanismo ovviamente è applicabile a tutto, ed è applicato a tutto. Nemmeno l’arte, nella sua ormai quasi totale sovrapposizione e unione con l’intrattenimento, ne è esente. Più che alla presenza di prodotti collaterali alle singole opere, l’evidenza principale è il cambiamento della percezione generale del concetto di saga. Per carità, le saghe esistono da secoli, pensiamo ai cicli arturiani o ai racconti scandinavi, ma è solo in tempi relativamente recenti che hanno assunto la connotazione attuale.
Negli ultimi anni, che siano letterarie, cinematografiche o televisive, le saghe hanno subito una perentoria brandizzazione, rendendole di fatto delle granitiche macchine macina soldi. Di per sé non ci sarebbe nulla di male, sorgono però due problemi abbastanza evidenti e tra di loro in parte contrastanti: l’immutabile riconoscimento, e il fanatismo. Come abbiamo detto in apertura un brand deve identificare in modo semplice e riconoscibile un prodotto, è un contenitore di promesse da mantenere, portatore di determinate caratteristiche uniche e peculiari che lo differenziano e lo inquadrano nel panorama generale. Rientra perfettamente in quella soglia di sicurezza e prevedibilità che sempre più inseguiamo, alla ricerca di tutto ciò che perfettamente aderisca e soddisfi il nostro orizzonte d’attesa. Vogliamo avere l’empirica certezza di non buttare il nostro tempo e denaro, chiudendoci quindi in un artificiale mondo a nostra misura. Questo porta in prima battuta ad un impoverimento personale, pensiamo anche a quello che succede con le raccomandazioni di piattaforme tipo Netflix, ma non è quello che più ci interessa al momento. La conseguenza che più ci preme è l’immutabilità di un prodotto appartenente ad un brand. Squadra che vince non si cambia, e proprio questo detto popolare sembra il principio fondante della “nuova” industria culturale brandizzata. Se le meccaniche di gioco di un Assassin’s Creed o la componente ironica mutuata da un certo capitolo dell’universo cinematografico Marvel (coff coff, Guardiani, coff coff) funzionano, e fanno quindi vendere, perché cambiare? In nome dell’originalità sarebbe quindi da prendere torce e forconi? O proponendo qualcosa di nuovo e diverso si andrebbe a snaturare il brand?
Il limite è, purtroppo, pericolosamente sottile, facilmente fraintendibile, ed apre a fin troppi distinguo. Prendiamo la recente nuova serie fantascientifica trasmessa in Italia da Netflix. Parla principalmente di una giovane donna che, trasportata dagli eventi, si ritrova ad essere causa scatenante di una guerra tra una razza aliena violenta e conquistatrice e la federazione interplanetaria che in qualche modo ha cercato di regolare la convivenza nell’universo. Non siamo qui a parlare della sua qualità, prendiamo solo in esame le sue caratteristiche. Trama fortemente orizzontale, con una verticalità comunque sempre finalizzata, personaggio principale in qualche modo centrale non solo nella sua storia ma in quella generale, molta azione, e girata principalmente tra interni di un’astronave e generici esterni spaziali palcoscenici di combattimenti. Così descritta potrebbe essere una serie fantascientifica come tante altre, migliori come peggiori. Questa serie in particolare di chiama Star Trek: Discovery. Apriti cielo. I cultori di Star Trek, ma alla fine anche i comuni mortali che hanno anche una minima idea di cosa Star Trek sia e rappresenti, dopo questa sommaria descrizione potrebbero facilmente affermare che Discovery non sia uno Star Trek. Non ha in effetti niente che lo accomuni ad un qualsiasi, o quasi, altro Star Trek, se non il mondo di base in cui è ambientato; non una caratteristica fondante; in definitiva sentiremo che manca lo spirito che contraddistingue uno Star Trek. Ancora, da pochi giorni è uscito Gran Turismo Sport, nuovo capitolo della iconica saga videoludica che da vent’anni accompagna Playstation. Tralasciando difetti tecnici di sorta, è un titolo a suo modo rivoluzionario e per il genere e per il brand. Un titolo coraggioso, che ha deciso di cambiare totalmente il suo assetto, abbandonando completamente i suoi storici punti caratteristici, per puntale a qualcosa di completamente nuovo. Un’altra volta, un casino. Non è Gran Turismo; questo gioco fa cagare perché manca questa cosa tot che reitera da vent’anni in modo pressoché immutabile.
Dove sta la verità? Quale è il trucco? Sarà probabilmente una risoluzione paracula, ma in fin dei conti è vero che ciò che cerchiamo sta nel mezzo. È una cosa estremamente difficile, ma un qualsiasi prodotto andrebbe prima di tutto giudicato e vissuto come individualità, estrapolandolo dal suo brand. Quel determinato titolo funziona? Al netto dei suoi punti di forza e delle debolezze siamo di fronte ad un prodotto compiuto? Soprattutto, ci piace? Ecco, risposto a queste domande possiamo discutere del resto. Altrimenti il rischio è quello di scadere nel fanatismo più cieco, che non permette la progressione, che rifiuta il cambiamento, assecondando l’immutabilità dettata dal denaro di chi questi brand li produce. Ci si lamenta che è tutto uguale, ma allo stesso tempo si vuole che nulla cambi. È chiaro che se un mondo, un’ambientazione, un contesto immaginario, con le sue caratteristiche e il suo fascino, ci hanno rapiti, o è per noi un luogo dove abbiamo lasciato il cuore, vorremmo che persistesse per sempre. Magari aggiornato, rivisto con i miglioramenti tecnologici del nostro tempo, in modo da sembrare sempre più reale, da darci sempre meglio la sensazione di poterlo vivere in prima persona (oggi più che mai, tra remastered, remake e reboot, la cosa sta sfiorando il ridicolo). Questo però non è altro che voler continuare a vivere nell’illusione che i bei tempi andati siano sempre qui, adesso. Non è preservare lo spirito, ma incatenarlo. Perpetrare la vita di un brand, insistere su di una saga, ha senso, o per lo meno dovrebbe, nel momento in cui quel determinato brand ha ancora qualcosa da dire, non ha esaurito la forza della sua idea, o, ancora meglio, ha da offrirci idee nuove e sconosciute immerse però coerentemente nel fascino di ciò da cui parte. Lo spirito di Star Trek è l’immaginifica e infinita scoperta del meraviglioso, ad esempio. Un qualcosa di potenzialmente inesauribile. Allora Discovery risulta essere un pessimo Star Trek proprio perché non sfrutta affatto il brand. Gran Turismo Sport, al contrario, pur nelle sue mancanze è un gioco che rinnova la voglia di motori, di competizione e adrenalina, mutando la sua struttura ma dandoci le sensazioni di un tempo senza accorgercene.
Poi ci sono brand insospettabili, che nascono dal nulla, e che sollevano le discussioni quelle vere. Perché, non giriamoci attorno, questo fiume di parole è una sorta di temporeggiamento per non arrivare mai a toccare la vera questione, il vero tasto dolente. Blade Runner 2049. Capolavoro? Mezza fetecchia? Progressisti, talebani di Scott, gente media. Tutti hanno avuto il loro dire. Una trama cerebralmente complicata, una caratterizzazione estremizzata ed appiattita; una situazione cristologica e profetica dove gli stessi personaggi erano originariamente futili e microscopici ingranaggi di un meccanismo indifferente; una verbosità didascalica. Così come un prodigio della tecnica; una meravigliosa esperienza audiovisiva, un nuovo canone per la cinematografia di un certo tipo. Ci sono tante ragioni per vederlo e apprezzarlo come no, eppure. Eppure la domanda è solo una. Perché? Perché realizzarlo, questo sequel. Perché trasformare in brand ciò che brand non era, ciò che ancora resisteva al mercato; ciò che dal mercato era stato ignorato. Blade Runner aveva ancora qualcosa da dire? Nonostante dicesse molto, probabilmente il capolavoro di Scott poneva le basi per molto altro. Usare quel mondo per portare qualcosa di nuovo avrebbe potuto essere interessante, come no. 2049 è allora un buon film di fantascienza, un’eccezionale esperienza cinematografica, e un pessimo Blade Runner. Semplicemente perché non ci dice niente di nuovo, ci lascia esattamente dove eravamo rimasti; non sposta, se non per banali inezie marginali, il discorso avveniristico dell’originale. Il più bel trucco del Diavolo sta nel convincerci che non esiste, ma il gioco perverso del brand, del mercato, crolla nel momento in cui siamo dubbiosi, in cui un tarlo si insinua in testa. Giudicare efficacemente il nuovo tassello di un già composto mosaico allora si riduce ad una sola domanda: ne avevamo veramente bisogno?