Anche Dino Campana si autopubblicava

È il 1913, dicembre per la precisione, e un’ombra si muove indisturbata negli uffici della neonata rivista Lacerba. L’ombra è infreddolita, ha i capelli lunghi, le mani gonfie per i geloni, dei pantaloni di mussolina a fiorellini troppo corti e le scarpe rovinate.
Aspetta.
Siede e aspetta.
Ciò che la spinge ad aspettare è un’esigenza profonda, uno slancio che viene dalla bocca dello stomaco: vuole essere riconosciuta. Nell’ufficio fanno finalmente la loro entrata altre due figure. L’ombra in attesa è Dino Campana, mentre le figure ora apparse sono Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Campana, poeta esordiente, consegna loro Il più lungo giorno per una valutazione e finalmente pubblicazione sulla loro rivista. Lo scrittore riparte così per Marradi, fiducioso, ma i mesi passano senza che una risposta di qualsiasi natura arrivi. A febbraio 1914 il poeta orfico scrive a Papini una lettera dal tono secco in cui chiede che il manoscritto gli venga restituito. Ma questo afferma di aver affidato l’opera a Soffici che nega di averlo. Quello consegnato era l’unico manoscritto esistente, Campana non aveva pensato alla possibilità che potesse andare perso o che, peggio ancora, non gli venisse restituito. Rassegnato a non poter più recuperare i suoi appunti, Campana si dispone a riscrivere l’opera. Così, alla fine di luglio dello stesso anno, esce grazie allo stampatore di Marradi, Bruno Ravagli, il piccolo libro che finisce nelle librerie fiorentine con il titolo: I Canti Orfici. A quasi due anni dalla pubblicazione, è oramai gennaio 1916, il ricordo dell’opera perduta deflagra e diventa un’idea intollerabile. L’autore arriva così a minacciare Papini; rivuole indietro il suo manoscritto entro una settimana, altrimenti non si farà problemi a usare un coltello per farsi giustizia da solo. Il più lungo giorno però ricomparirà nella casa di campagna di Soffici a Poggio a Caiano solamente nel 1971, ritrovato dalla figlia.
Storia già sentita? Probabilmente sì.
Di Campana si è parlato tanto indagando il suo rapporto con il fare poesia e con il mondo dei letterati che lo circondava. Critici e studiosi puntano spesso l’accento sulla malattia psichiatrica, sua fedele compagna fino alla morte. Altri invece si soffermano a esaminare la questione “campana” da un punto di vista filologico, analizzando le differenze tra il primo manoscritto, Il più lungo giorno, e quello che ha riscritto andando a memoria e fatto pubblicare con il titolo Canti Orfici. Analisi che ci permette di scoprire il suo particolare rapporto con la scrittura; Campana infatti non aveva la necessità di rivedere i suoi scritti. Tutto quello che veniva vergato con la penna, era perfetto così, senza bisogno di creare numerose varianti. Questo è un elemento di grande rilevanza, che avalla ciò che vedremo in seguito, ovvero che il nostro autore era fermamente convinto di ciò che scriveva. Tanto che quando si trattò di riscrivere le poesie gli bastarono una penna, un foglio e la sua preziosa memoria. Data la numerosità di saggi su questi argomenti, ho voluto glissare e scrivere ponendo l’attenzione su un altro aspetto: il rapporto tra autore ed editore, artista e pubblicazione, scrittore e fama. Da questo punto di vista Campana mi sembrava un caso abbastanza eclatante, insomma sarei andata sul sicuro… ma poi mi sono detta che anche se non fosse andato perso, il suo quaderno di poesie, la solfa sarebbe stata esattamente la stessa. Probabilmente Papini e Soffici non avrebbero pubblicato a puntate quelle poesie troppo lontane dal loro ideale futurista, perché diciamocelo, per essere convinti di non aver mai ricevuto un romanzo mentre questo ci osserva alle spalle dalla mensola della libreria, vuol dire non averne una grande considerazione. E Campana si sarebbe comunque autoprodotto ottenendo la stessa risonanza mediatica che ha avuto il libro culinario di Bruno Barbieri; Cipolle: buone da far piangere. D’altronde sappiamo tutti che sarà solo dieci anni dopo la sua morte, che alcuni scrittori come Montale, Bo, Luzi, Gatto e Falqui lo inseriranno di diritto nella poesia del Novecento.
La particolarità di Campana risiede nella sua concezione di poesia e di editoria. Infatti per lui la poesia è il luogo della soggettivazione, della resistenza estrema dell’identità umana dell’artista. Questa umanità necessita però di “edizione”, ovvero di un’operazione che possa dare un timbro, un luogo, una data di esistenza a qualcosa che altrimenti non troverebbe posto nel mondo. Tanto che in una lettera a Prezzolini, datata 6 gennaio 1914, Campana si presenta così:
Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi. Non sono ambizioso ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto lacerare dalla vita, la mia parola che nonostante sale ha il diritto di essere ascoltata.
E nel marzo dell’anno successivo scriverà a Cecchi:
Da quindici anni a questa parte tutti mi hanno contestato il diritto di esistere e se non mi son tirato un colpo di rivoltella è stato solo per un colpevole orgoglio.
La poesia diviene quindi garanzia di un diritto di esistenza. L’anima dell’autore freme, trema, vibra e si tende verso la pubblicazione come unico modo di autoconsapevolezza umanitaria e poetica. Campana si convince che i suoi scritti siano sé stesso, conseguentemente egli dubita di esistere quando i suoi testi non sono ancora stati pubblicati, e cioè non sono socialmente conosciuti e riconosciuti. Quindi quando si è visto rifiutato e respinto dal mondo dell’editoria, l’unica sua possibilità è stata quella di autopubblicarsi per riuscire a realizzarsi come poeta e come uomo.
Sappiamo tutti che gli editori sbagliano, la storia è piena di casi simili; autori rifiutati che solo grazie alla loro determinazione ed estrema consapevolezza di sé (anche se qualcuno potrebbe definirla boria) si incaponiscono fino a dimostrare il loro valore vendendo un numero altissimo di copie e piazzandosi di diritto nella “hall of fame” dei romanzi. Questa però non è una storia che riguarda la fama o il denaro, ma della semplice e primordiale necessità di esistere. Insomma, per poter vivere e identificarsi Campana ha bisogno di essere conosciuto e condiviso, ma questo non significa necessariamente che debba anche essere apprezzato. Campana voleva essere pubblicato e basta, non pubblicato e amato. La scrittura veicola un senso di esistenza come nessun altro strumento riesce a fare. Ciò che viene scritto rimane impresso sulla pagina per secoli dopo la morte dell’autore. È un testamento, un riconoscimento all’intero mondo di esserci stati, di aver vissuto e amato, sofferto, pianto, odiato… di essere stati uomini. La scrittura attesta l’umanità. La conferma e parallelamente ne conferisce il senso stesso. Per poter rimanere impressi però non basta scrivere qualcosa, tutti scriviamo: dalle liste della spesa agli appuntamenti in agenda. Dobbiamo far sì che il nostro operato veicoli per il mondo, si diffonda, scrosci per le strade come un temporale autunnale. E l’unico modo è abbattere le barriere che l’editoria, editori e case editrici, ha costruito intorno a sé. Altrimenti puoi sempre sperare di essere ricco e autopubblicarti.
Il risultato non cambia: Il libro è stato stampato? Perfetto… ora esisti.