Calvino-Morselli: corrispondenza di un delitto editoriale

Chi non conosce Guido Morselli non si consideri un ignorante. Nella storia della letteratura italiana – per restringere il campo – non pochi scrittori meritevoli sono sempre rimasti all’ombra dei cosiddetti “grandi”. C’è stato chi ha subìto l’indifferenza degli editori, ma forse peggio è andata a quelli “beffati” di essere editi dopo una non-gloriosa dipartita. Uno tra questi è sicuramente Morselli. E non è bastato che la casa editrice Adelphi pubblicasse tutti i suoi romanzi post-mortem per garantirgli un minimo di successo – come dimostrano le poche e sterili righe dedicate a lui sul Manuale di letteratura italiana contemporanea a cura di Casadei e Santagata.
Quella di Morselli è una storia drammatica e sfortunata dal punto di vista editoriale e non. Tale sofferenza è riconoscibile in pressoché tutti i suoi romanzi, dove in maniera più chiara, dove veicolata dal discorso indiretto libero. L’insuccesso editoriale è un’ossessione che Morselli si porterà dietro per tutta la vita, precisamente fin quando, come preannunciato in Dissipatio H. G., con la “ragazza dall’occhio nero”, ossia una Browning militare, si toglie la vita nel 1973.
Il caso più curioso e documentato di un rifiuto editoriale di Morselli è quello che riguarda Il comunista, nella corrispondenza con Calvino il quale, ai tempi collaboratore nell’Einaudi, rifiuta di pubblicare il libro. Credo sia interessante porre un focus sulla dinamica di tale rifiuto. I motivi che spingono Calvino a redarre un così ampolloso e articolato NO saranno forse più chiari se visti in ottica critica, non lasciandoci sfuggire alcuni passaggi che di per sé rappresentano delle contraddizioni. A tal fine, ripropongo qui sotto, con un breve commento, le parti salienti della corrispondenza:
Torino, 5 ottobre 1965
Caro Morselli,
finalmente ho letto il Suo romanzo. So d’aver tardato oltremisura e che non c’è nulla che spazientisca un autore quanto queste lunghe attese: ma la lettura dei manoscritti è un lavoro supplettivo per cui devo rubare del tempo al lavoro e alle altre letture che riempiono – ahimè senza margine – le mie giornate feriali e festive, inverno ed estate. Ed è anche un lavoro – devo dirglielo subito – che, quando si tratta di romanzi politici,
faccio senza nessuna speranza. La politica continua a interessarmi, e così la letteratura (con tutto ciò che questo nome implica) ma dal romanzo politico non mi aspetto nulla, né in un campo d’interessi né nell’altro. Credo cioè che si può fare opera di letteratura creativa con tutto, politica compresa, ma bisogna trovare forme di discorso più duttili, più vere, meno organicamente false di quello che è il romanzo oggi. Trattando i problemi che stanno a cuore si possono scrivere saggi che siano opere letterarie di gran valore, valore poetico dico, con non solo idee e notizie, ma figure e paesi e sentimenti. Delle cose serie bisogna imparare a scrivere così, e in nessun altro modo.
La partenza di Calvino non presagisce nulla di buono, specialmente con “quando si tratta di romanzi politici, faccio senza nessuna speranza”. Per un certo aspetto Calvino parte già con una sorta di pregiudizio, in una posizione – come vedremo più avanti – non propriamente transigente, né tantomeno comprensiva. Essendo già questo incipit funesto per l’opera di Morselli, Calvino cerca tuttavia – con un gran giro di parole che non occorre citare per intero – di argomentare ampiamente il suo punto vista come per addolcirne l’esito finale. Da una prima parte in cui Calvino cerca di focalizzare il romanzo e il suo contenuto, si arriva rapidamente al punto cruciale. Qui la dimostrazione che Calvino non ha capito e non ha potuto capire, essendo Morselli inedito e sconosciuto, proprio la caratteristica principale e onnipresente della sua poetica letteraria, e cioè la deformazione ideologica della realtà storica e politica.
[…] direi che ci vorrebbe più consapevolezza dell’operazione linguistica che sta facendo; dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo “inventare”. Qui è la grande delusione a cui necessariamente va incontro il “genere” che Lei ha scelto, il romanzo di rappresentazione quasi fotografica d’ambienti diversi, il romanzo storico-privato.
In questo punto della lettera sono chiarissime due cose: la prima, se così vogliamo considerarla, si presenta come una sottile presunzione, la seconda è la prima di una serie di contraddizioni. Quel “lo lasci dire a me” dà l’impressione di nascondere dietro un certo veleno: non dico invidia, ma sembra in maniera un po’ troppo evidente spinto da una convinzione ancora fortemente politica poco propensa ad accogliere nuove idee e nuovi linguaggi. Per più, un Calvino che rifiuta in accezione letteraria la parola “inventare” rappresenta una gigantesca contraddizione: basti pensare, per fornire solo un esempio, al motivo per il quale è stato concepito Il barone rampante, ossia applicando una sorta di realismo allegorico all’abbandono di Calvino del PCI a seguito della posizione presa da questo nel dibattito in merito alla Rivoluzione ungherese del 1956. Se dovessi spiegare la cosa in termini davvero miserabili, è come se Calvino avesse detto “io sì, tu no”. Perché negare questa libertà di espressione, anche fittizia, anche irrazionale, anche totalmente sbagliata? Ma da questa dolorosa stoccata, Calvino tenta di riprendersi, contraddicendosi ancora, scrivendo:
[…] L’unica via possibile è l’autobiografia, o comunque la riflessione in cui sia ben chiaro chi è il soggetto e qual’è il suo rapporto coll’oggetto che tratta; inventare – se non si tratta d’invenzione pura, cioè sempre d’autobiografia – è impossibile […].
Seguono ancora dei commenti al romanzo, soprattutto sui contenuti ma anche sullo stile. L’alternanza tra i motivi dello scarto e l’analisi del testo criticato soprattutto nei contenuti risulta ridondante e ancora contraddittoria. Tale ridondanza è da considerare un po’ aria fritta se osserviamo poi il tentativo, con rispetto parlando, “penoso” di Calvino di edulcorare la parte finale del rifiuto editoriale. Viene da pensare che dietro al motivo di così sentito rifiuto si celi altro, un qualcosa che Calvino stesso non riesce a spiegare a chiare parole, e che forse si è lasciato involontariamente sfuggire.
[…] Come vede il libro ho cercato di leggerlo in tutte le sue dimensioni, e mi sono accanito a smontarlo e rimontarlo: insomma ci ho preso gusto e mi ci sono arrabbiato, non rimpiango il tempo (un viaggio a Milano in treno, andata e ritorno) che ho impiegato a leggerlo, posso dire che mi ha mosso pensieri e ci ho imparato.
Spero che Lei non s’arrabbi per il mio giudizio. Si scrive per questo e solo per questo: non per piacere, o stupire, o “aver successo”.
Un cordiale saluto
Suo Italo Calvino
Pochi giorni dopo, la risposta di Morselli. Credo che ogni commento sia superfluo, anche e soprattuto per la risolutezza e la compostezza della risposta. Ve la lascio leggere quasi per intero, limitandomi solo a eliminare qualche passaggio e a sottolineare invece le parti che fungono maggiormente da risposta chiara e intelligente alla stroncatura di Calvino. Non occorre inoltre commentare poiché da queste parole non emergono solo la rabbia e la delusione di Morselli, ma anche la sua grandissima abilità nel contenerle, con in chiusura una prova di umiltà da lasciare letteralmente disarmati.
9 Ottobre 65
Caro Calvino,
La ringrazio della Sua lettera. Il “successo” c’è e non speravo di averne tanto: in veste, magari involontaria, di critico Lei mi dedica una lunga, articolata recensione, in cui è implicita una premessa per il povero “Comunista”. Il quale si presta alle Sue critiche, si capisce, ma so che Lei non concederebbe l’imprimatur a un lavoro che non stimolasse e non provocasse. Lei editore non ammetterebbe un libro “pacifico” sul quale tutti fossero destinati a trovarsi acriticamente d’accordo, sia pure in senso elogiativo. Lo considererebbe insignificante.[…] Quanto a me, aggiungo che se nella Sua lettera avesse parlato l’editore, avrei controbattuto, ma una recensione si accoglie e si gradisce, anche se è rigorosa. Perciò quanto dico ora, lo dico in tesi generale.
Quell’ “apriori” che Calvino fieramente premette, “il romanzo è organicamente falso”, Calvino autore di opere che sono narrativa e senz’altro romanzo e lo mettono fra i 10 e 15 italiani del dopoguerra di cui si parlerà nei manuali di lettere del 2000, quell’apriori anti-romanzo è condiviso da parecchi, e è respinto da parecchi altri, non solo “produttori” come, poniamo, Moravia o la Ginzburg, ma studiosi; da Lukàcs a Jean Bloch-Michel. La spiegazione sta forse nel fatto che il romanzo è un universale oggi, all’esterno del quale manca oramai un genus proximum, mentre dentro di sé include “generi” in numero imprecisato e reciprocamente incomparabili come potevano essere all’epoca del classicismo francese l’idillio e la tragedia e La Bruyère, ecc. Questo spiega anche la coesistenza e l’azione efficace di “poetiche” così opposte, che sembrerebbero doversi escludere a vicenda, e cioè che possano trovare udienza e seguito i “joyciani” e i nuovi esaltatori di Zola, che riescano altrettanto attendibili i più recenti sperimentalisti per es. i teorici del nouveau roman francesi, e un Lukàcs codificatore del realismo (socialista e no), quanti ammettono al massimo il romanzo saggio e quelli che lo vogliono invece effusione lirica, confessione; ecc. È facile che questa brava gente abbiano tutti ragione, parzialmente, unilateralmente; il torto degli uni e degli altri, Lei sa, è di assolutizzare, di negare validità alle opere che escano dagli schemi (e “generi”, piuttosto) da ciascuno preferiti.
Mi sono avvicinato al punto che, provvisoriamente, ci interessa. Tutto, Lei sa, dipende dagli scopi che uno scrivendo si propone e dai mezzi che a quegli scopi si adattano. Chi ha molte cose da dire, cose di una certa categoria, gli conviene (per parlare un po’ all’ingrosso) l’oggettività e la costruzione; e una volta adottato questo metodo, che adoperi la prima persona e la terza “storica”, che autobiografizzi e si trinceri dietro un fittizio distacco saggistico, alla resa ultima il suo andamento narrativo non può essere molto diverso.[…] se dovessi dire oggettivamente il mio parere sulla Sua “recensione”, direi che è vero, il “Comunista” può dar luogo a discussioni, vivaci e lunghe. Il Partito, i suoi esponenti, i suoi organi, periferici e non periferici, sono bene descritti in questa tipologia così rapida, unilaterale? L’argomento era inesauribile, Lei ha ragione; da poterne discutere all’infinito. Finirei per concludere così: che nel “Comunista” è veduto un ambiente e soprattutto un “tempo” (il ’58: già lontano da noi) di un organismo che – in Italia! – è soggetto a frammentazioni (anche geografiche) e a evoluzioni frequenti e non di superficie. Non pretendo di dare un giudizio storicizzante, e nemmeno, nemmeno, un ritratto esauriente. La sua rappresentazione poggia su un personaggio che è, e del resto sa di essere, molto inadeguato a incarnare le ragioni e i caratteri della localizzazione italiana (sia pure) di un movimento politico e dottrinale di portata universale […].
[…] Ma queste sono osservazioni di margine; quel che conta ora è che Lei mi scriva che alla lettura “ci ha preso gusto e ci si è arrabbiato”, che la figura centrale, o unica, del libro “c’è e persuade” (sono le Sue parole) e che il libro “è gremito di fatti e di cose”. Di più, io sinceramente non avrei potuto chiedere per il mio lavoro. Se uscirà, ho una mezza idea che si meriterà altri éreintements, e magari solo éreintements e stroncature, il che farà molto onore all’editore e persino troppo all’autore. Ma sarei felice se i critici che lo attaccheranno sapessero arrivare alle stesse conclusioni di fondo cui è arrivato Lei, e che lo maltrattassero col gusto e la passione che ci ha messo Lei. La ringrazio dunque ancora, e La prego: quando ritorna a Milano me lo faccia sapere, verrò a salutarla e per me sarà incontrare un amico.
Per non essere, a Lei, del tutto uno sconosciuto: sono emiliano, autodidatta, vivo solo su un piccolo pezzo di terra dove faccio un poco di tutto, anche il muratore; politicamente sono in crisi, con quasi nessuna speranza di uscirne.
Mi creda
Guido Morselli
Anche se questo articolo mostra il retroscena di un “delitto editoriale”, l’obiettivo in realtà sta altrove. È cioè quello di incuriosirvi, di esortarvi magari a sapere di più su questo autore, ad oggi ancora poco letto e poco valorizzato. In Morselli potete trovare tantissima ricchezza di contenuto, un curiosissimo veicolo ideologico, ma soprattutto uno stile particolare e ricercato, che si inserisce a tutti gli effetti e con lode nel filone “espressionistico” del romanzo italiano.
Morselli è stato uno scrittore che non è voluto mai scendere a compromessi – il che è stato probabilmente la sua rovina – ma ha conferito solo così un’altissima dignità a ciò che produceva. Alberto Moravia, una volta venuto a sapere del suicidio di Morselli a seguito del rifiuto di Dissipatio H. G., disse: «Ha fatto malissimo. Visto che era ricco poteva fare come me, che a vent’anni feci pubblicare a mie spese Gli indifferenti». E anche Moravia, come del resto Calvino, non ha capito assolutamente niente di quella personalità travagliata di Morselli che maturava in grembo un genio letterario.
In ultimo, ma non per importanza, mi scuso in anticipo con chi di voi giudicherà la natura di questo commento essere troppo sintetica, circostanziale e non completamente esauriente. Avete ragione, ma così è, nel rispetto della fattura di un articolo. Sono ben consapevole che questa, come altre questioni letterarie, in realtà, si presterebbe a un commento molto più ampio, potrebbe essere un valido argomento per una tesi di laurea e nondimeno rappresentare un’ottima pubblicazione saggistica.
Ora, non mi aspetto che facciate una delle cose qui appena dette, ma sarebbe già un grandissimo gesto se nella prossima libreria più o meno fornita nella quale vi troverete, vi dirigiate verso la colonna degli Adelphi e acquistaste un libro di Morselli. Per cominciare, consiglio il romanzo allegorico-fantastico Dissipatio H. G., ergo “evaporazione del genere umano”. Sono sicuro che non rimarrete delusi.