Quando James Joyce era a Trieste

Abbiamo avuto l’ onore di ospitarlo in Italia, James Joyce. Esattamente dal 1904 fino al 1919 l’ autore irlandese visse e tornò più volte a Trieste. Ed egli era molto legato alla città friulana, a quel tempo sotto l’ egemonia asburgica e una delle realtà urbane più importanti d’Europa. E lì forse, Joyce ha trovato le ispirazioni giuste per completare alcuni suoi capolavori, vedi Dubliners o Chamber Music. Si poi dice che fosse un regolare frequentatore del Caffè San Marco, nobile locale triestino le cui sale erano l’ abituale ritrovo di artisti e intellettuali. E inverosimilmente il caso vuole che Joyce non conosca Svevo tra penne e caffè, bensì tramite l’ inglese. La storia di quest’ amicizia infatti ha inizio con il signor Schmitz carente nella lingua britannica, con la necessità dunque di frequentare delle lezioni private. In quegli anni Joyce oltre ai vari lavori che alternava, si offriva come insegnante privato di lingua inglese alla scuola Berlitz di Trieste . Secondo gli scritti di Letizia Svevo, figlia del grande autore, l’ irlandese veniva a domicilio nella loro casa dimostrando una conoscenza delle lingue impressionante, non che una gran gentilezza. Da lì nacque l’ amicizia che legò i due scrittori per diversi anni, un rapporto colloquiale, amichevole, rispettoso. E’ noto infatti come i due provassero ammirazione l’ uno per l’ altro, e non è neanche un segreto l’ amore di Joyce per Senilità. Il libro di Svevo aveva colpito molto lo scrittore di Dublino, e ciò amplifica le dimensioni della loro relazione professionale. L’ autore di Dublino tuttavia era costantemente in una situazione economica precaria, molto, e questo portò Schmitz a prestargli soldi. Le vicende private di Joyce condussero lo stesso scrittore a cambiare ben otto abitazioni in quasi dieci anni. Ma l’ amicizia che nacque fra i due letterati e il rapporto d’ amore che si era creato con la città aiutarono Joyce a “sopravvivere psicologicamente “. Lui infatti, nato in una famiglia nobile, dovette resistere agli sforzi e alle sfide quotidiane che la vita misera presentava, e i suoi continui cambi di professione erano la prova di un insoddisfatto rapporto con la realtà. Da non tralasciare poi le difficoltà che lo scrittore incontrava nel soddisfare le esigenze famigliari .
Del suo esilio dall’ Irlanda faceva parte anche sua moglie Nora, che a Trieste gli diede due figli : Giorgio e Lucia. Tuttavia più tardi, Joyce ebbe l’ occasione di ricambiare il favore economico di Svevo aprendogli la strada per il suo grande scritto Coscienza di Zeno. Un testo che l’ irlandese, a Parigi, presentò a importanti critici letterari come Lambraud e Cremiaux, sdebitandosi. Era infatti un perfetto sconosciuto Coscienza in Italia, e le uniche belle parole venivano da Montale, suo affermato estimatore. Inoltre, Schmitz riprese a scrivere proprio grazie al suo amico, che gli aveva proposto come consiglio la lettura di alcune sue opere. A livello professionale poi, Svevo aiutò Joyce nella composizione psicologica del personaggio dell’ Ulisse Leopold Blloom. Il rapporto Joyce-Svevo però non prevedeva delle similitudini tecniche nei propri racconti. L’ Ulysses joyciano è infatti un’ opera lineare, senza filtri e con il flusso di pensieri allo stato naturale, escludendo ogni forma di controllo razionale. D’ altra parte invece Svevo racconta le vicende di Zeno con un approccio differente, guidando ragionevolmente i dialoghi del protagonista e regolandone la lingua, sempre borghese. Ma entrambi gli autori possono andar fieri di esser considerati due effettivi membri del movimento post-positivista degli albori del Novecento. La corrente dell’ epoca vuole infatti pittori e scrittori immersi nell’ analisi psicologica dei propri soggetti, esponendo visioni della vita e ragionamenti interiori. Tra l’ altro, come dimostra la vicenda legata all’ emancipazione europea della Coscienza, il rapporto tra i due mutò divenendo esclusivamente epistolare. Joyce infatti dopo aver lasciato una parte di cuore a Trieste, abbandonò la città dei commerci per Parigi. L’ amore dell’ irlandese era per un luogo che aveva i profumi della sua filosofia cosmopolita e dell’ attività commerciale che tanto la rendeva famosa. Sapeva eccellentemente il dialetto triestino e aveva iscritto i suoi figli in una scuola pubblica locale. Di Trieste soprattutto apprezzava lo spirito multietnico, elemento tra l’ altro ben evidenziato da Svevo nei suoi racconti. Quindi Joyce non visse prettamente in una città italiana, come l’ odierna geografia dice, bensì in una realtà austriaca. Ma l’ essenza di un’ atmosfera metropolitana in costante frenesia creò una breccia nel cuore senza confini di Joyce, che non conobbe a pieno l’ Italia, ma ne apprezzò il polo che più preferiva. Quello cosmopolita.