La storia jugoslava di calcio e di guerra

Il teoretico letterario e linguista Roman Jakobson aveva dato una definizione della letteratura circoscrivendola come: “un atto di violenza organizzata sul discorso ordinario“. La violenza letteraria deriva dall’inversione dei modi nei quali siamo abituati a pensare, ad osservare il mondo. Ogni individuo appartenente a una società viene immerso nella cultura che opera condizionandolo/a attraverso diverse pratiche discorsive. Il ruolo della letteratura è quello di invertire e capovolgere questi modi di pensare, offrendo in questo modo una possibilità di pensieri radicalmente differenti. Essendo nella sua natura radicale, la letteratura non dovrebbe poter essere corretta.
L’attributo radicale è quello che può essere assegnato all’ultimo libro di Gigi Riva, pubblicato in giugno del 2016 e intitolato L’ultimo rigore di Faruk. L’opera letteraria, scritta e pubblicata originariamente in francese con il titolo Le dernier pénalty, tendenzialmente (auto-)biografica perché segue la trama di una squadra di calcio e del suo capitano Faruk Hadžibegić, ha vinto il Prix Étranger sport et littérature 2016. La particolarità del libro, inaugurato con la citazione “Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seriaˮ di Diego Armando Maradona, sta nel fatto che segue tre livelli narrativi. Il primo è quello del capitano della squadra jugoslava, il secondo è esteso alla squadra di calcio e quella di pallacanestro, il terzo accompagna i passi della politica sul livello della Jugoslavia e quello della cosiddetta comunità internazionale alla fine degli anni ottanta e all’inizio degli anni novanta del «breve secolo».
Sotto la bacchetta comandante del dirigente calcistico Ivica Osim, la squadra di calcio comprendeva i seguenti nomi in magliette bianche con bordi blu e rossi: Ivković; Spasić, Vulić, Hadžibegić; Jožić, Brnović, Sušić, Prosinečki, Šabanadžović; Stojković, Vujović. Questi undici contro undici nomi in magliette blu, indossate dalla squadra argentina: Goycochea; Olarticoechea, Serrizuela, Ruggeri, Simón, Basualdo ; Burruchaga, Maradona, Giusti; Calderón, Caniggia. Il 30 giugno del 1990 le due squadre giocavano il quarto del finale del campionato mondiale a Firenze. Giocavano quella partita che evocherà l’insegnamento proverbiale di Machiavelli, pure lui di Firenze, che la fortuna incide al cinquanta per cento nelle vicende umane. La metà meno fortunata in questa vicenda umana toccherà la squadra di un paese che poco dopo non esisterà più.
Attraverso il protagonista del libro Hadžibegić, si racconta la storia di una squadra di calcio che non era una squadra nazionale ma piuttosto una squadra che rappresentava sei repubbliche costitutive (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Macedonia) e due province autonome (Kosovo e Vojvodina). Le tensioni prima della sanguinosa messa in scena che diede avvio alla dissoluzione e alla guerra conseguente nel territorio jugoslavo ebbe inizio proprio allo stadio Maksimir a Zagabria, il 13 maggio del 1990 durante la partita di Dinamo Zagabria e Stella Rossa di Belgrado. Contestualizzando tramite eventi calcistici le circostanze e le aspirazioni politiche del periodo, distintivo per di più per la fine della guerra fredda, lo scrittore focalizza il ruolo dello sport nel quadro politico internazionale. Ricordandoci come la storia passa anche per gli stadi, verranno menzionati gli avvenimenti come la notizia della morte di Tito arrivata durante la partita Hajduk Spalato-Stella Rossa Belgrado nel 1980, la partita con forti connotazioni storico-politiche tra la Jugoslavia e la Germania, così come il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca 1980 da parte dell’occidente. Particolarmente notevole per un lettore attento sarà la testimonianza nei capitoli che comprendono l’approfondimento del periodo delle proclamazioni d’indipendenza slovena e croata e il ritiro dei rispettivi giocatori di pallacanestro. Analogamente con gli sviluppi agli stadi, la squadra jugoslava di pallacanestro vinse la coppa mondiale FIBA del 1990 a Buenos Aires.
La crisi e le tensioni nazionalistiche avevano influenzato il mondo dello sport attraverso il quale si concretizzavano poi i problemi sopramenzionati. Le preoccupazioni del protagonista Hadžibegić e di vari altri personaggi di fronte alla politica che invadeva lo sport sono contestualizzati con la voce narrante che contemporaneamente offre un’analisi lucida e precisa delle condizioni socio-politiche grazie al fatto che lo scrittore aveva svolto il ruolo del giornalista seguendo «da dentro» le dinamiche durante la guerra in Jugoslavia.
L’interrazione delle persone nello spazio è stata esaminata dalla studiosa Maria de Fanis (2001:22) come la deliberazione dei “soggetti intesi come un’entità che, essendo plasmati nello spazio, incorporano in questa interrazione le proprie azioni, l’ingenuità, i valori individuali e collettivi che trasformano lo spazio nel posto”. Questi “soggetti intesi come un’entità” sono quelli che operano ed esprimono le proprie aspirazioni all’interno della struttura sia dello spazio che del tempo. Il tempo e lo spazio sono due elementi metodologici della geografia politica utili per comprendere la complessità presentata nel libro dove la metamorfosi dallo spazio della repubblica socialista federale trasforma lo stadio e la palestra in un posto.
Diversamente dall’antichità dove si fermavano le guerre durante i giochi olimpici nell’antica Grecia, l’asservimento dello sport (del calcio così come del basket) alle logiche etno-nazionalistiche indicano la correlazione che spesso succede, dove dalla storia minore, lo sport farà il salto nella storia maggiore. La guerra come metafora di una partita con esiti sanguinosi, la partita di calcio come una simulazione dello scontro bellico pone quella domanda assolutamente straniera alla storia come scienza, cosa sarebbe successo se il rigore di Faruk non fosse stato l’ultimo, tenendo in mente la rilevanza dello sport nei Balcani e l’identificazione delle masse con esso. Concludendo il saggio con queste domande che riguardano il passato e il presente dei paesi ex-jugoslavi, l’opera offre un approccio piuttosto radicale alla tematica della guerra. E non solo della guerra ma anche del calcio, da un punto di vista raramente analizzato intorno al tema dei sopramenzionati. Proprio attraverso « l’atto di violenza organizzata sul discorso ordinario » che continuamente include l’intolleranza e il rancore etnico, religioso, linguistico e innanzitutto nazionalistico.
Osservatore premuroso, l’autore ricostruisce lo sviluppo politico con il filtro di cittadini jugoslavi, quelli che giocavano oppure tifavano per quella squadra multietnica. La serie dominante dei motivi nel libro contiene le specificità della Jugoslavia socialista; si tratta di una specie di breviario del sistema auto-amministrativo decomposto in varie sfere – dagli ideologemmi basilari, attraverso la storia ufficiale e la quotidianità causale, fino alle prassi sociali e i concreti prodotti leggibili anche a quelli al di fuori dei codici generazionali. Si tratta di un mosaico costruito dagli avvenimenti e dai dettagli di una storia che poteva e che non doveva succedere. Decidendosi per il sottotitolo « una storia di calcio e di guerra », Gigi Riva ha composto un lungo saggio che alla fine pone quesiti ipotetici che toccano l’irreale come in molte vicende storiche accadute nel passato e in quelle a cui stiamo assistendo sulla stregua delle famose strade che ci beforcano, quelle ben note ai lettori di Borges.