La sinistra e l’Islam: intervista a Edoardo Schinco

Edoardo Schinco ci spiega come sia possibile che due temi apparentemente così distanti siano, in realtà la faccia della stessa medaglia: l’imperialismo capitalista. Lontano, tuttavia, da avere importanza esclusivamente accademica – via Dio! – e dall’intercettare stilemi e “supercazzole” della retorica fusariana – dio ce ne scampi! – quest’intervista raccoglie in una voce quella dei tanti delusi da chi ha smarrito il proprio potenziale anti-establishment, facendo infine parte di questo paradigma (La Sinistra italiana); smaschera, inoltre, la retorica di chi – da entrambi gli schieramenti politici – ha una visione ideologica – e dunque parziale – del problema/dei problemi di questo segmento storico. Lascia trapelare, infine, un messaggio, che è anche una speranza: resistere, perché una soluzione c’è.
Il tuo libro La Sinistra e l’Islam. Fra autolesionismo e malafede (Clinamen, Firenze, 2017) è un libro dai toni caustici e disillusi nei confronti di un paradigma economico – quello capitalista – che si rigenera nella forma ma non nella sostanza e che considera come il sostrato dal quale si dipanano anche le moderne forme di violenza organizzata quale il terrorismo islamico. Illustraci le ragioni di questa tesi.
In realtà, io credo che a questo punto l’onere della prova spetti a chi non condivide questa prospettiva: se è vero che la società è una totalità aperta – e, a sua volta, il mondo globalizzato è la totalità delle varie società –, ogni sua parte è condizionata e condizionante verso le altre, e si lascia comprendere solo come aspetto di un intero. A questo punto, direi, dovremmo semmai temere quei saperi che tentano di tirarsi fuori dalla dimensione sociale e si dichiarano neutri: se ricorda, già nel Vangelo di Matteo c’è l’esortazione a temere quei lupi che si ammantano col candore delle pecore. E qui la scienza economica è proprio la prima ad essere chiamata in causa, specialmente per i suoi tentativi di eternizzare un modello economico, quello capitalistico, che visibilmente non regge più: il problema dell’allevamento intensivo, la miseria crescente ovunque, gli abusi dell’industria farmaceutica oppure la distruzione sistematica dell’ambiente – è come quando si procede contro ad un muro: poco prima di colpire la parete siamo portati a chiudere gli occhi, fingendo di ignorare il pericolo, nonostante si abbia l’assoluta certezza dell’impatto imminente.
Un’ultima battuta in merito. Il problema del terrorismo islamico è esattamente come quello ambientale: in Occidente ci impegniamo nelle piccole azioni morali, tipo la raccolta differenziata, mentre ogni ora la foresta amazzonica arretra di un’area più ampia di 120 campi da calcio. La classe dirigente ci offre i nostri trastulli quotidiani – ad esempio, l’impegno per integrare gli immigrati – mentre dello sfruttamento imperialistico dei grandi capitali, che così hanno preparato il terreno al terrorismo islamico, non si fa parola.
Il problema dei flussi migratori è uno dei temi di politica estera più delicati, soprattutto nel nostro paese. La politica, tuttavia, non ha ancora fornito una risposta efficace. Il problema maggiore, tuttavia, è che secondo te non hanno nemmeno compreso questa problematica da un punto di vista più generale, in quanto strettamente connessa a dinamiche economiche.
Diciamo che qui l’atteggiamento della politica è – come espresso dal sottotitolo del libro – oscillante fra i due poli dell’autolesionismo e della malafede: pensare che sia tutto organizzato minutamente è, forse, un atteggiamento eccessivamente paranoico; certo è che le azioni intraprese sul piano politico seguono indirizzi ben precisi, che si profilano piuttosto chiaramente per chiunque abbia familiarizzato con il pensiero neoliberista. Una certa ideologia liberal-globalista, infatti, è divenuta senso comune per la classe dirigente italiana (e non solo, ovviamente) ed il ricorrere inquietante di certe parole d’ordine – su tutte, il tema della competitività e quello dell’economia sociale di mercato – non lasciano adito a dubbi.
A questo punto, per sviluppare un modello di comprensione delle dinamiche storiche, mi associo a coloro che evitano di concepire il processo storico, da un lato, come un insieme caotico di eventi e, dall’altro lato, come mera esecuzione di un piano prestabilito nei dettagli: non voglio negare che ovunque ci siano gerarchie, né che alcuni soggetti in posizione di forza (penso a Soros, in questo momento) non esercitino sul movimento storico complessivo un’influenza maggiore di quella dell’uomo comune; semmai, voglio sottolineare che anche laddove il potere sembra essere onnipervasivo, si possono pur sempre rinvenire dei punti ciechi, dei rifugi momentanei dall’occhio del Grande Fratello – ovvero, degli appigli per opporre resistenza.
In un articolo apparso su “Senso comune” denunci la percentuale di emigrati italiani all’estero più alta dal secondo Dopoguerra. Una prospettiva desolante, per il nostro paese, a sua volta rifugio (ancorché spesso temporale) per altri migranti. Il punto, a mio avviso, è l’ipocrisia e la mancanza di sensibilità nel non riconoscere, in fondo, la delicata condizione dell’emigrante in quanto “straniero in terra straniera”.
Guardi, a causa di vicende accademiche, mi sono trovato due mesi fa a richiedere il visto per gli Stati Uniti: mi era già accaduto di fare un visto per la Cambogia, ma in quel caso era tutto finito in qualche minuto, con tante strette di mano e 30 dollari di tasse. Diversa è stata la situazione al consolato americano, dove si poteva avvertire da subito una certa aria di ostilità: non c’entra il buonismo né voglio fare qui un elogio acritico del migrante, però è certamente molto difficile trascorrere la propria esistenza come esuli, privati della lingua madre, guardati con diffidenza o con astio. Lo shock culturale che mette in crisi la propria ritualità quotidiana e che costringe ad abbandonare i propri costumi, spesso non trova mai fine. Nel bel libro La miseria del mondo curato da Bourdieu si sottolinea appunto la difficoltà di integrare gli immigrati di prima generazione, proprio perché questi spesso vivono per tutta la loro vita nell’illusione di riuscire a mettere da parte qualcosa e poter così tornare finalmente a casa con qualche soldo in tasca. E, come per molti italiani all’estero, anche per molti stranieri in Italia oggi (penso ad alcune famiglie del Sud-Est asiatico) la condizione esistenziale non è molto diversa.
Come scriveva in una delle ultime interviste prima di morire Roberto Bolaño, alla domanda su quali fossero le cose che lo annoiavano di più: “Il discorso vuoto della sinistra, il discorso vuoto della destra lo do per scontato”. Il discorso della destra è così vuoto? Quella della sinistra, dal tono del libro, sembra, invece, che non lo faccia solamente annoiare.
La domanda circa la destra è più che legittima, e devo dire che dissento fortemente dall’opinione di Bolaño. Naturalmente, in quanto eterne vittime dell’idea illuministica di progresso, ci piace pensare che la cultura stia dalla parte del bene (il quale, a sua volta, sta sempre dalla nostra parte, ça va sans dire); tuttavia, si deve pur ricordare che la filosofia del Novecento si è articolata anche attorno a grandi pensatori di destra – Heidegger, Schmitt, Gehlen, solo per citare i primi che mi vengono in mente – dai quali la sinistra radicale ha spesso ricavato strumenti concettuali utili nella lotta contro il pensiero liberale. La più grande lezioni che oggi ci offre la destra, almeno credo, è quella di rigettare con forza la dicotomia “ragionare con la testa”/“ragionare con la pancia”. Anziché chiedere ai cittadini di scegliere fra i grandi ideali umanitari e la difesa dei propri interessi personali, si dovrebbe articolare un discorso che unisca i due poli allo stesso tempo: nel caso dei migranti, ad esempio, la lotta contro il mondo globalizzato disegnato dalle politiche neoliberiste del WTO e dalla Banca Mondiale permetterebbe di non dover scegliere fra un’accoglienza senza riserve (testa?) e la difesa autarchica del proprio territorio (pancia?).
Circa il discorso della sinistra (parlamentare), invece, direi che è tutt’altro che vuoto; è semmai un muro di gomma, la cui funzione è assorbire i suoni e gli urti, preservando lo status quo e soprattutto un certo tipo di senso comune.
Come diceva Deleuze: non si scappa dalla macchina. Questo perché, probabilmente, essa crea anche le condizioni della sua sopportazione. La spettacolarizzazione della vita attraverso i social network è, a mio avviso, una delle suddette condizioni, alla quale negli ultimi tempi anche la politica si è, inevitabilmente, genuflessa. Secondo te, è possibile una soluzione che non sia un anacronistico ritorno ad un mondo “pre-Facebook”?
Sai, poco tempo fa stavo leggendo Gender Trouble di Judith Butler e – dopo tutto lo stillicidio quotidiano di Fusaro e sodali – sono rimasto positivamente sorpreso dal trovare, fin nell’introduzione, la costatazione da parte dell’autrice del fatto che nella società dello spettacolo le stesse lotte portate avanti dai gender studies e dal femminismo radicale potessero essere facilmente assorbite e pervertite, private della carica emancipatrice. Certamente, oggi più di ieri non si sfugge alla macchina; d’altra parte, come ricordava Foucault, la resistenza storicamente possibile si dà solo là dove ci sono relazioni di potere, e lo stesso Lenin – in linea con Marx – assumeva il mondo capitalistico come punto di partenza imprescindibile per approdare al comunismo.
Voglio dire, se una soluzione è possibile – ed io sono convinto di ciò – allora questa trova i propri presupposti solo nel presente; pensare a soluzioni anacronistiche significherebbe non solo fare del romanticismo filosofico, ma addirittura falsare il piano di discussione, poiché in ogni caso sono gli attori reali, i soggetti, ad essere cambiati: il post-secolarismo, in quanto tale, non è forse già affetto dalla secolarizzazione? Perciò, potrebbe mai stabilire di nuovo uno status quo ante, ricondurre ad una fede originaria?
Gli stessi gruppi neo-fascisti, con le loro litanie nostalgiche circa il Ventennio, non si sono accorti del “mutamento antropologico” (per dirla con Pasolini) che hanno subito: per fare un esempio, se l’eugenetica aveva perfettamente senso all’inizio dello scorso secolo, oggi le ideologie neoliberiste hanno modellato tipologie di soggetto completamente estranee al quel contesto culturale, come Nikolas Rose cerca di chiarire.
La generazione dei cosiddetti Millennials, alla quale apparteniamo anche noi, sembra oscillare fra due vuoti: l’uno, quello politico, non ha saputo ricostruire una narrazione “accattivante” come quella delle grandi Ideologie; l’altro, quello culturale, il cui inizio storico-simbolico è quello dell’avvento della tv commerciale e giunge fino alle odierne piattaforme social, spesso povere di contenuti di qualità. Dove riponi le tue speranze?
Con Marx, sono davvero convinto che l’umanità non si dia compiti che non possa risolvere, e credo che – al di là della nostra volontà di nicchia, singolare o collettiva che sia – le contraddizioni reali spingeranno i soggetti ad una presa di coscienza. Le tendenze storiche del capitalismo sono riaffiorate con la vittoria del neoliberismo e la loro virulenza è andata aumentando sempre di più: sfruttamento de facto e accumulazione della ricchezza in mano a pochi grandi capitalisti sono tratti caratteristici della fase storica in cui stiamo vivendo; certamente dipenderà da quanto la sinistra e la destra saranno in grado di contenere le forze sociali centrifughe, ma credo che presto le persone – specialmente le classi medie europee, in caduta libera – saranno costrette a decidere da che parte stare e a riconoscere che una lotta sociale di interessi contrapposti è attiva, ancorché misconosciuta dai più. Citando la Luxemburg, ancora una volta saremo costretti a scegliere fra barbarie o socialismo (qualunque cosa quest’ultima parola pretenda di indicare): starà a noi, come collettività, scegliere se essere trascinati dalla storia o esserne gli attori principali.