Underworld, un libro italoamericano

He speaks your voice. Parla la tua voce, che in inglese può essere tradotto “dì la tua””. Sono le prime quattro parole di quello che può essere considerato il più grande romanzo degli anni ’90: Underworld di Don DeLillo.
Don DeLillo nasce nel Bronx nel 1936 da una famiglia di origine italiana, precisamente abruzzese, vivendo con distacco le sue radici mediterranee. Scrittore di indiscutibile talento, esordisce come romanziere nel 1971 con Americana. Come ogni autore americano nato nel ‘900, Don DeLillo si trova a fare i conti con la scomoda etichetta di postmodernista, spesso rifiutata dallo stesso. Leggendo però i suoi romanzi non si può non essere concordi che il gusto postmodernista abbia una grande influenza su libri come Rumore bianco o Libra, considerati due capolavori della letteratura postmoderna.
C’è però un aspetto che nelle sue opere non è mai venuto a galla: la sua origine italiana. I tre libri sopracitati sono romanzi tipicamente e totalmente americani, un’americanità criticata, un american way of life che non trova un terreno fertile nella mente di DeLillo e che muore nelle contraddizioni che gli Stati Uniti impongono a tutto il pianeta. Emblema del rifiuto delilliano è il suo rapporto conflittuale con la notorietà; non siamo ai livelli di Pynchon e Salinger (dei quali non esistono immagini pubbliche neppure su google), ma di certo quando Fernanda Pivano riuscì ad intervistare DeLillo, fu un po’ come vincere la lotteria.
Non appena uscì Underworld, nel 1997, fu chiaro a tutti che l’espresso DeLillo stava prendendo un binario differente. Il postmodernismo non è più dominante, o meglio, non più totalizzante. DeLillo parla di sé come l’ultimo dei modernisti per questo libro, mostrando una letteratura diversa rispetto ai lavori precedenti. L’aspetto che però ha stupito alcuni i critici è l’emergere dell’italianità in questo romanzo.
Facciamo un passo indietro. Negli anni ’90 i Cultural Studies hanno aperto una visione nuova sull’etnicità in America: le culture africana, europea e sudamericana sono ormai profondamente radicate negli Stati Uniti e le usanze connesse a queste etnie, da evento folcloristico, diventano veri e propri avvenimenti culturali, gesti e simboli in grado di creare arte. L’etnia italoamericana è una delle più profonde e radicate in America e molti scrittori, come John Fante o Di Donato, passati alla Storia come americani, sono stati riletti in chiave italiana. Ecco che temi come la famiglia, il cibo e il lavoro finalizzato al guadagno, non sono più comprimari, ma diventano protagonisti in autori di origine italica. Oggi in America si parla di vera e propria scuola italoamericana con Fred Gardaphé e Tony Ardizzone in testa. E DeLillo?
E DeLillo la sua italianità non l’ha mai sentita, sempre nascosta, sempre sopita. Fino ad Underworld. Nel suo romanzo più complesso DeLillo sembra non riuscire a trattenere l’italianità, ma la sua non è un italianità esibita, e, probabilmente, non è un’italianità voluta. Ma allo stesso tempo è un’italianità innegabile. Innanzitutto l’aggettivo “italian” compare 37 volte nel romanzo. Per numero di apparizioni è il terzo aggettivo etnico, dopo “american” ed “english”. Qualcuno potrà opporsi dicendo che il numero delle parole non è un dato rilevante. Sì, magari per un altro romanziere, non per DeLillo, un autore che misura gli idiomi col bilancino. Un esempio? Nick Shave, uno dei personaggi, è ossessionato dal numero 13, vedendolo come presenza demoniaca e costante nella sua vita. E più volte ragionando su questo numero appare la locuzione “everything is connected”. Tutto è collegato. Quante volte appare? Tredici. E il numero 13 quante volte compare? 39, 13×3. No, non sono casi.
Altro aspetto dell’italianità sono alcuni riferimenti culturali. Tre volte viene nominato Mussolini; viene citato Fermi che si collega al tema delle scorie nucleari; viene citata la città di Milano. Tanti i personaggi reali di origine italiana fra cui il giocatore di baseball Branca o the Voice Frank Sinatra. Senza considerare che due fra i personaggi principali del romanzo, Nick Shave e Albert Bronzini, sono di origine italiana. Italianità che spesso si lega al mondo della malavita, inevitabilmente, come vuole l’immaginario dell’italiano in America.
La domanda è, perché DeLillo che ha sempre taciuto le sue origini italiane, che nei romanzi precedenti non ha mai fatto riferimento al nostro paese, in Underworld cambia decisamente rotta? Una delle spiegazioni è quella già affrontata: è come se DeLillo, nel flusso inconscio delle sue narrazioni, perda il controllo sulla sua identità passata, come se schegge di Italia gli sfuggissero senza volerlo. L’Italia viene dissotterrata: uno degli “underworld” mette la testa fuori dalla sabbia. Questa almeno la tesi di buona parte della scuola italoamericana.
La spiegazione può essere un’altra. Underworld vuole essere un libro che rappresenti l’America, la Storia americana. Un Storia fatta da tutti, dai singoli. He speaks your voice, in questa accezione è funzionale. Se “lui dice la sua”, tutti possiamo dire la nostra. E l’America è un insieme di voci, una polifonia composta da italiani, afroamericani, latini, irlandesi. E tutte queste etnie sono presenti nel romanzo di DeLillo. Certo quella italiana spicca più delle altre, anche di quella afroamericana, che vedrebbe in Cotter e Martin due protagonisti importanti. Ma quella italiana, dopo quella americana, è la cultura che meglio conosce DeLillo, avendo i genitori abruzzesi. Lo scrittore non si è sentito italoamericano in questo libro e non si sentirà mai così. Ma certamente ha voluto rendere omaggio ad una della più grandi etnie presenti negli Stati Uniti.