Il ruolo del maestro: un incontro con Ganga Ricchizzi

Assisi è una fantasia, un pensiero posto alla base della fronte inchiericata del monte Subasio, l’attraversiamo oltrepassando i vicoli di pietra rosa e i collarini bianchi per uscire da porta Perlici e immergersi nel verde delle colline umbre e un cielo azzurro impennacchiato da nuvole. Ciò che cerchiamo è nascosto in questi grembi umidi: tra località Paradiso e Casa del Diavolo sorge la dimora del primo maestro di musica indiana del nostro paese, Gianni “Ganga” Ricchizzi. Si sale e scende attraverso gli acquarelli delle foglie autunnali, l’aria cristallina punteggiata dagli echi radi degli spari dei cacciatori, dopo alcune svolte su una strada di ghiaia bianca compare un cartello di legno, “Saraswati House – 100m”.
Saraswati è il nome della Minerva indiana, prima tra le dee vediche è sposa di Brahma e protettrice delle arti e della conoscenza, qui il suo tempio si realizza in una stanza colorata intorno a un palco drappeggiato, apparecchi per la diffusione audio e strumenti a riposo. Il silenzio regna sovrano, non c’è nessuno. Appena fuori una casa in pietra sbuffa fumo dal comignolo, dopo qualche gradino custodito da gatti obesi e quattro colpi alla porta si entra nell’odore di fuoco e in un lago di armonie sonore. Da una stanza laterale si dipana una registrazione di vichitra veena immersa nello scintillare del pulviscolo attraversato da un raggio di sole, ne emerge un uomo allampanato con una lunga barba grigia, occhiali dalle lenti scure e sul capo un cappello da baseball che sembra una spugna di mare, sotto di essa chiome argentate piovono fino alle spalle. Saluta ed offre subito un tè, una donna dagli occhi azzurri lo prepara in cucina conversando in american english e sedendosi davanti al focolare, qui l’uomo informa dell’arrivo di due studenti, volendo potremo alloggiare con loro in camere separate in un edificio a pochi passi di là.
L’uomo è il maestro di musica, nato Giovanni Ricchizzi a Barletta diventa Ganga nella Benares degli anni Settanta, la città in cui per dieci anni approfondirà lo studio del sitar, la chitarra indiana a venti corde. Fin dalla nascita lo affligge una formazione alternativa delle mani, con circa cinque delle dieci dita praticamente inutilizzabili. Un giorno uno zingaro arriva a Barletta, arriva dall’India via terra sulla groppa di un somaro acquistato in Afghanistan, ha i capelli neri e lunghi fino al fondo della schiena, gli viene offerta ospitalità, e guardando le mani di Gianni gli dice “tu con queste mani suonerai il sitar in India”. Quando si troverà al cospetto del suo primo maestro di musica a Benares il sufista gli afferrerà i palmi ringraziando Allah di avergli portato mani benedette (il sitar, nonostante la grande quantità di corde, può essere suonato utilizzando tre dita soltanto).
Le lezioni cominceranno nel tardo pomeriggio, sono individuali e possono durare da un’ora e mezza fino a tre ore, il livello degli studenti è quello di principianti quindi viene mostrato loro un esercizio e fatto ripetere, poi il maestro aggiusta la posizione delle mani e l’esercizio si ripete, si cerca la pienezza del suono e della risonanza e non la velocità di esecuzione, si ripete ancora mentre il maestro va nell’altra stanza a mangiarsi un biscotto. Sembra disinteressarsi allo sforzo dell’allievo che continua a praticare ma se il ritmo aumenta troppo, se il suono si smorza, se si imbrogliano le note, gli occhi sporgenti emergono subito dalla porta e la voce profonda seccamente riporta all’ordine.
Questi ripetitivi e scomodi esercizi sono propedeutici ad entrare nel mondo della musica indiana, un mare infinitamente vasto dove i raga rappresentano le isole: lunghe composizioni che portano con sè determinate scale musicali, sentimenti e riflessioni, colori e periodi all’interno dei cicli del tempo solare e lunare. Un mondo in cui l’apprendista musicista deve entrare con pazienza, ad esempio un suonatore di tampura che voglia accompagnare un concerto di un’ora dovrà riuscire a suonare per due ore le stesse quattro corde, le stesse quattro note allo stesso identico ritmo, un sitarista per eseguire al meglio un raga invece vi si dovrà focalizzare per un mese intero, se non per l’intera vita. Un mondo dove è il tempo stesso a trasformarsi in uno strumento per definire il moto incessante del suono, una dimensione che una volta penetrata rarefà la temporalità nella ripetizione delle vibrazioni consonanti di corde tese.
Lo studente che si ferma per più giorni alla Saraswati House può occupare il tempo estraneo alle lezioni praticando lo strumento, leggendo, passeggiando per i boschi circostanti o occupandosi delle mansioni di pulizia e efficienza della casa: organizzare il confezionamento e il trasporto della legna, fare la lista della spesa, curare l’orto o aiutare il maestro con le corrispondenze e burocrazie cui non riesce a far fronte. I pasti si fanno in comune, a volte partecipa la vicina e l’uomo di origini argentine cui la casa dà ospitalità in cambio dei lavori nell’orto e nel giardino i cui prodotti finiscono interamente sulla tavola. La vita si svolge senza regole fisse ma in linea con certe parole di Rabindranath Tagore nel suo Towards universal man:
Se si dovesse costruire una scuola modello bisognerebbe farla sorgere in una località tranquilla, lontano dalla città affollata, in modo che possa avere i vantaggi naturali offerti dal cielo, daicampi, dagli alberi e da tutto il resto. Dovrebbe essere un luogo di ritiro nel quale maestri e allievi condurrebbero una vita dedita all’apprendimento. Se fosse possibile vi dovrebbe essere un pezzetto di terra che gli studenti dovrebbero coltivare e che dovrebbe fornire loro il cibo. […] In questo modo troverebbero con la natura un contatto fisico oltre che spirituale. Quando il tempo è buono le lezioni si dovrebbero tenere all’ombra di grandi alberi. Una parte dell’insegnamento dovrebbe essere costituito dalla discussione tra maestri e allievi che passeggiano tra filari di alberi. Durante il periodo di riposo serale gli studenti dovrebbero studiare le stelle, coltivare la musica e ascoltare racconti storici e leggendari.
Una sera il maestro non è troppo stanco per rispondere a domande, ma prima – dopo una cena, qualche birra e una fumata davanti al focolare – si va a sedere nella stanza della musica e prende la sua personale rudra veena, la imbraccia obliquamente con una delle sferiche casse di risonanza a terra e l’altra appoggiata sulla spalla e sull’orecchio sinistri così da apparire come uno strano simbolo di equilibrio e poi, pizzicando le corde, fa dilagare suoni che dietro alle palpebre abbassate si trasformano in onde e spirali di pensieri che si incontrano infinitamente.
Perchè a venti anni hai deciso di andare in India? come è avvenuta l’attrazione e cosa pensi che abbia attratto e attragga tutt’ora verso questo paese questo flusso migratorio basato su una spesso indefinita ricerca?
Ganga: anche io sono andato in India per trovare qualcosa, via terra attraversando Grecia, Turchia, Iran, Afghanistan e Pakistan dirigendomi verso il nord dell’India. Era così che si usava al tempo, negli anni Settanta quando tanti dei cosiddetti figli dei fiori partivano in viaggio verso la spiritualità orientale, e io ero uno di quelli. Già suonavo il sintetizzatore e le tastiere in un complesso delle mie parti, Il re nudo, quindi già qualcosa di musicale in me mi orientava verso quel magnete. Una volta arrivato ti rendi conto del perchè eri partito, a Benares comprai il mio primo sitar in cambio della catenina d’oro della mia prima comunione insieme a un libretto, Impara il sitar in tre mesi, scritto da un europeo. Dopo tre mesi di tale applicazione mi resi conto che ero infinitamente lontano da quello che avevo sentito in India alla radio e in rare occasioni dal vivo, suonavo il sitar un pò come se fosse una chitarra. Ripartii allora ancora più accanito per l’India dato che al tempo in Italia non trovavo nulla che mi interessasse, dagli omicidi politici in televisione alle overdose di eroina di amici e conoscenti. Dopo tre mesi a Benares mi feci prolungare il visto a nove mesi, poi conobbi il mio primo maestro, Raj Man Singh, che mi spiegò come, per studiare davvero lo strumento, occorressero degli anni. Decisi allora di prendere un visto da studente, mi iscrissi all’università e rimasi presso di lui.
quanto credi che influisca il ruolo di un maestro nell’apprendimento?
G: Il ruolo del maestro è fondamentale, perchè se non c’è qualcuno che ti guida non solo nelle tecniche ma anche nel significato di tutto quello che si impara ciò che si fa finisce per essere vuoto. Il mio primo maestro è stato quello che mi ha guidato nell’apprendimento della sistematicità e della spiritualità musicale. Dapprima mi fece capire che non servivano a nulla i braccialetti e le collane che avevo addosso, gli Oṃ namaḥ Śivaya che mi avevano dato i shadu nei vari templi e che mi avevano fatto sentire legato in un certo modo alla cultura del paese, ma di cui mi sarei dovuto liberare per approcciarmi allo studio del sitar. Mi disse: vuoi imparare a suonare o vuoi fare il santone? Da allora niente più anelli, neppure l’orologio riesco a portare. Forse è proprio questo quello che uno va a cercare in questi luoghi lontani dato che in Occidente spesso tanto l’insegnamento quanto la musica in generale sembrano essere promossi solo in virtù della loro praticità, della loro utilità materiale. Invece lì apprendere è diventato imparare a concentrarsi con uno strumento, applicarsi a fare una sadhana, una disciplina costante tutti i giorni, che con il tempo diventa un momento di yoga, meditazione, concentrazione. Da solo non sarei riuscito a disciplinarmi, anche perchè al tempo ero molto sregolato. Grazie al mio maestro sono riuscito a trovare quello che cercavo: l’unione di musica, tecnica e spiritualità nella ricerca della purezza del suono.
Secondo alcune ricerche la fisica moderna ha punti di contatto con intuizioni poetiche vediche, quali la visione di un cosmo attraversato da una vibrazione che permette il comporsi delle cose. Come produttore di vibrazioni sonore immateriali pensi che la musica abbia un influsso sul sostrato materiale della realtà?
G: Sicuramente. Si vede immancabilmente sulle persone tanto quanto sulle piante, le stesse molecole dell’acqua cambiano la propria struttura in base ai suoni che arrivano e addirittura il getto di una fontana può cambiare forma in base alla musica che l’attraversa. Molecole d’acqua sono state fotografate e filmate durante un mio concerto a Roma: un campione d’acqua era collegato tramite sensori al suono della mia vichitra veena e le modificazioni delle strutture molecolari venivano poi proiettate su un megaschermo alle mie spalle. Oltre che a fornire un effetto scenografico psichedelico è servito per una riflessione: i corpi “viventi” come sappiamo sono composti per la maggior parte da liquidi, e non piangiamo forse sia quando siamo tristi che quando siamo felici?
Ultima domanda, un pò fuori tema: cosa pensi che ti succederà dopo questa vita?
G: non lo so, ogni tanto ci penso ma sono così tanto incerto su questo argomento che non faccio tante speculazioni. Però d’altra parte ti posso dire che quello che ho fatto in tutti questi anni che ci sono stato, dedicandomi interamente alla musica, senza volere nè moglie nè figli, arrivando in India con dei limiti fisici piuttosto evidenti eppure portando avanti una storia unica…insomma non so, a volte mi sembra strano che possa finire lì. E mi aspetto una continuazione, forse, non so come.
parti della musica di Gianni Ganga Ricchizzi sono qui.