Sincerely, Leonard Cohen

Leonard Cohen è morto. Sebbene avesse recentemente dichiarato di essere preparato al momento finale e di esserne addirittura in attesa, noi, di sicuro, non eravamo pronti. Come è stato per Bowie a inizio anno, la perdita diventa ancor più significativa perché il musicista ha continuato fino all’ultimo a comporre, e questo ci riempie dell’amarezza di essere stati derubati della poesia che avrebbe ancora potuto donarci. L’ultima, quella di You want it darker, uscito il mese scorso, è il compimento adamantino di una produzione musicale che resterà incisa nella storia e si concede già alla leggenda.
Prima poeta di carta e inchiostro e poi musicista, Cohen si è avventurato sulla soglia che divide sacro e profano, spirituale e carnale, divino e dannato, e ne ha riconciliato i mondi, con un’eleganza e una raffinatezza inedite. E se non ne amate le atmosfere tristi, le pene amorose ed esistenziali, il mistero del dubbio e le deprimenti verità liriche, allora non potrete che amarne la sottile e tagliente ironia. Cohen era dotato di un animo comico infallibile, e proprio perché non era spensierato, aveva il dono di alleggerire il fardello delle afflizioni. Il suo humor nero è liberatorio, luminoso, purificatore. Ha cantato l’amore in tutte le sue forme, poiché ne era ossessionato. Si è spinto all’interno dello spirito, per esplorarne i paesaggi mistici e i paradossi sin da quando da ragazzo imparò a ipnotizzare i propri amici. Ebreo di nascita, si esiliò in un monastero zen buddista per sei anni, studiò a fondo tutte le sacre scritture, si ispirò alle poesie della beat generation, e non disdegnò mai i piaceri materiali dell’alcol e delle sigarette. E’ un uomo che ha racchiuso in sé la possibilità di un’umanità intera, variegata, che compie azioni orrende ma è anche capace di miracoli di compassione, ed è alla costante ricerca di risposte. Per questo, come spesso si fa in caso di morte, noi vogliamo celebrare la vita, e lo facciamo qui con 10 capolavori della poetica musicale di Cohen, imponenti e del tutto insufficienti. Ci auguriamo siano solo il punto di partenza per un viaggio nell’universo artistico vastissimo, profondo, spirituale e multisfaccettato di questo grande sacerdote dell’Arte.
“So Long, Marianne” – Songs of Leonard Cohen, 1967.
Alla fine degli anni ‘50, Cohen si trasferì sull’isola greca di Idra, dove tra la scrittura delle prime poesie, l’attesa spasmodica dell’ispirazione artistica, periodi di abbandono ed esperienze lisergiche con droghe di vario tipo, incontrò Marianne Ihlen, celebrato amore e musa indiscussa che il musicista avrebbe consacrato all’immortalità, dedicandole la canzone dell’arrivederci. “So long, Marianne” è il congedo successivo alla fine di una relazione che, come tutti i rapporti, è fatta di alti e bassi, ma per quanto amaro sia ripercorrerli nel ricordo, non se ne può cancellare l’importanza. Ed essendo l’amore materia dell’assurdo, ecco che il ritornello centrale è un’esortazione a piangere e ridere allo stesso tempo.
Addio, Marianne, era tempo di ricominciare a ridere e piangere e piangere e ridere di tutto questo ancora una volta.
Marianne Ihlen è morta la scorsa estate. Quando Cohen venne informato delle sue gravi condizioni di salute le scrisse una lettera:
Eccoci, Marianne, è venuto il momento in cui siamo davvero vecchi e i nostri corpi stanno cadendo a pezzi e penso che ti seguirò molto presto. Sappi che ti sono così vicino, dietro di te, che se stendi la tua mano, penso che puoi toccare la mia. E tu sai che io ti ho sempre amato per la tua bellezza e la tua saggezza ma non c’è bisogno di aggiungere altro, perché sai già tutto. Ma ora, voglio solo augurarti un buon viaggio. Addio vecchia amica, amore infinito, ci si vede giù, lungo la strada.
La risposta alla lettera di Cohen arrivò solo due giorni dopo, con l’annuncio della scomparsa di Marianne e la rivelazione che suoi cari avevano scelto proprio il titolo di questa canzone per darle l’estremo saluto.
“You want it darker” – You want it darker, 2016.
È la title track dell’ultimo album di Cohen, composto all’età di 82 anni e uscito lo scorso ottobre, un’opera che abbraccia interamente il tema della mortalità, dialoga con Dio, e, nella miglior tradizione Coheniana, incanta con la sua disarmante ironia. Il disco è permeato dall’accettazione dell’unico destino comune a tutti gli esseri umani. E con la consapevolezza pacifica della morte, la vicinanza con il divino si fa, come mai prima d’ora, contatto reale. Cohen ha scavato dentro se stesso talmente in profondità, ha sperimentato così tanto sia del mondo materiale che di quello spirituale che è pronto per la tregua. Firma un armistizio con amore, ci dona quest’ultimo testamento poetico e con una semplicità scioccante alza la bandiera bianca:
you want it darker
we kill the flame
[La vuoi più oscura,
estinguiamo la fiamma].
E nei preparativi in vista dell’ultimo viaggio, Cohen si rivolge a Dio con Hineini, una parola ebraica che si può tradurre come Eccomi, per poi aggiungere con una voce che è cavernosa senza essere intimidatoria, che è abissale eppure confortante
I’m ready my Lord
[Son pronto, mio Signore]
“Hallelujah” – Various positions, 1984.
Si, quell’Hallelujah. La canzone delle innumerevoli reinterpretazioni, molte delle quali ad opera dello stesso Cohen, che la ripropose più volte modificandone in parte il testo. John Cale, Bob Dylan, Annie Lennox, Bono, Bon Jovi, Rufus Wainwright, e addirittura Elio e le Storie Tese si sono cimentati con questo pezzo. Cohen , dal canto suo, non ha mai mostrato nessun fastidio al riguardo. Noto per la sua eleganza e la sua cordialità, durante numerose interviste si dichiarò non solo favorevole alle cover delle sue canzoni, ma confessò persino di provare un picco di felicità ogni volta che qualcuno annunciava di voler cantare una sua canzone. Questo è tanto più paradossale se pensiamo che il musicista soffriva di panico da palcoscenico e più volte dovette interrompere mortificato e nervoso i propri concerti perché non riusciva a cantare quelle che definiva meditazioni intime e interiori davanti a un pubblico plaudente.
La versione più famosa di Hallelujah è sicuramente quella di Jeff Buckley, bellissima, poetica, e piena di grazia (l’album in cui è inserita è appunto Grace). Inutile dire che quando è il suo autore a cantarla, i toni si fanno invece più oscuri, le ombre si allungano e il tono cinico con cui il coro ripete l’hallelujah dietro la voce baritonale di Cohen genera un altro tipo di brividi, meno epidermici e più profondi. In più, da colto esploratore di diverse filosofie e religioni, anche questo pezzo è infarcito di riferimenti alle sacre scritture, di risvolti contorti e di evocazioni sensuali, che forse, sbiadiscono e si perdono, se a cantarli non è Cohen.
“Dance Me to the End of Love” – Various positions, 1984.
Romantica, appassionata, un inno alla resa di fronte all’amore, con tutte le sue conseguenze, buone o cattive, le sue torture e le sue catene. Un tocco folkloristico glielo conferisce il ritmo dell’hasapiko, un antichissima danza bizantina ballata tuttora in Grecia. Ma non è l’amore sentimentale l’origine di questa canzone. La radice è nell’Olocausto. Il brano si apre con il verso “Dance me to your beauty with a burning violin”, e il violino si riferisce ai quartetti d’archi improvvisati che nei campi di concentramento erano costretti a suonare durante le esecuzioni dei propri compagni prigionieri. Cohen ha sempre sostenuto che una volta pubblicata, un’opera appartiene al fruitore, e dunque la sua genesi non è essenziale e l’interpretazione che se ne può fare è affar nostro e non più dell’autore. In questo caso, sapere o no quale fu l’evento ispirante della canzone, non cambia, a detta stessa di Cohen, il tipo di devozione e rispetto per la vita e per l’amore, qualsiasi sia la forma in cui si esprime. Ma scoprire la verità dei retroscena può far male. E questo è un pugno nello stomaco ben assestato.
“Tower of Song” – I’m your man, 1988.
L’età che avanza, e una consapevolezza più nitida della propria missione generano “Tower of Song”. È la metafora della torre , in cui Cohen viene imprigionato e in cui deve pagare il suo affitto, ossia il suo debito nei confronti della poesia e della musica: dell’arte. E non c’è vecchiaia, e tantomeno morte, che possa impedirgli di continuare a far sentire la sua voce, tanto aggraziata quanto ironica e autocritica, insieme a quelle di tutti gli altri artisti affittuari.
Yeah my friends are gone and my hair is gray
I ache in the places where I used to play
And I’m crazy for love but I’m not coming on
I’m just paying my rent every day
Oh in the Tower of Song
[Si, i miei amici se ne sono andati e ora ho i capelli grigi,
mi fanno male le parti del corpo con cui una volta mi divertivo
e sono pazzo d’amore ma nemmeno ci provo
pago solo il mio affitto ogni giorno,
oh, nella Torre della Poesia]
“Democracy” – The Future, 1992.
Una delle poche canzoni apertamente politiche, forse sufficientemente elaborata da poterle riassumere tutte. Particolarmente amara e attuale in questo periodo di strane elezioni americane, di malcontento generalizzato e sfiducia nei confronti dei governi, di morte delle ideologie e dei partiti. Profetico, Cohen lo è sempre stato. Non sbaglia mira nemmeno in questo caso. Cinico ma allo stesso tempo ottimista, il testo raggiunge il climax sul verso Democracy is coming to the U.S.A, (la democrazia sta arrivando negli Stati Uniti). Significa che finora non c’è stata, ma che il suo prossimo arrivo, che abbraccia la multiforme società americana in tutte le sue manifestazioni individuali, riaccende la speranza.
“Anthem” – The Future, 1992.
Anthem è l’inno per antonomasia, una poesia compassionevole, e un vademecum sia per la vita quotidiana che per i dilemmi esistenziali. Il ritornello è quello che Cohen descrisse come la cosa più vicina a un credo. Un’idea che è una delle posizioni fondamentali alla base di molte delle mie canzoni.
Dimenticate la vostra offerta perfetta
c’è una crepa in ogni cosa
È così che entra la luce
Il principio della perfezione possibile solo se veicolata dalle imperfezioni è non solo incredibilmente poetica e rivoluzionaria in una società che mira al successo ad ogni costo e ad alzare sempre di più gli standard del perfezionismo. È anche alla base del Talmud, e di numerose dottrine buddiste, di cui Cohen era un conoscitore e un appassionato. E così il sacerdote della malinconia e delle angosce assegna alle ferite che toccano a ogni essere umano una funzione fondamentale e rigenerativa, quella di fare da varco alla luce.
“I’m your Man” – I’m your Man, 1988
Sensuale, erotica e carnale senza mai essere volgare, è una supplica, una promessa, e al tempo stesso una proposta indecente scanzonata ma sincera. La canzone si presta a diversi livelli di malizia, gioca con ironia con le metafore del sesso e non si ricorda una sola performance che non abbia suscitato un interesse vibrante nel pubblico femminile. D’altronde sue sono le parole La realtà è una donna trasformata dall’orgasmo. Tutto il resto è finzione. Ogni donna che incontro mi stende. Lui stesso si era autodefinito Ladies Man, un tombeur de femmes che ha sedotto e conquistato innumerevoli signore, famose e sconosciute , e che di ognuna ha saputo prendere pregi e difetti per poi trasporli in poesia. Nonostante l’età avanzata e il decadimento fisico, Cohen ha mantenuto se non aumentato il suo fascino di Casanova Canadese, nei suoi completi eleganti grigio antracite o blu mezzanotte, lo sguardo affilato come stiletti e una voce di rasoio arrugginito che fa vacillare e incrina i più impassibili e i distaccati.
“Take This Waltz” – I’m your Man, 1988.
La trasposizione in musica di Piccolo Valzer Viennese di Federico Garcia Lorca, un poeta a cui Cohen era molto affezionato, tanto da chiamare Lorca sua figlia. Rimanendo fedele alle parole malinconiche del poeta spagnolo, Cohen intesse una ballata di decadenza, di dolcezza che sa di fiori appassiti e di omaggio alla vita che parte dalla malinconia dell’obbligo alla morte. Da contrappunto fa il ritmo del valzer, che nella sua mestizia non manca di essere surreale e vagamente sarcastico. Una delle canzoni più immaginifiche di Cohen, che ci permette di affacciarci nel salone da ballo del ricordo e della nostalgia.
Ahi, ahi ahi ahi
Prendi questo Valzer
“Famous Blue Raincoat” – Songs of Love and Hate, 1971.
È una canzone intima, una delle più personali, tanto da non essere la storia di un triangolo amoroso come potrebbe apparire a una prima analisi, ma un dialogo tra Cohen e l’altro se stesso, con al centro una donna. Nell’ incipit “Sono le quattro del mattino/ è la fine di dicembre”, è contenuta già l’atmosfera in cui si collocano le parole struggenti che Cohen rivolge, in un misto tra rancore e compassione, alla sua parte depressa e autodistruttiva. Non a caso sceglie di ambientare la canzone nel periodo dell’anno più buio e freddo, quello che coincide con l’equinozio d’inverno, il giorno più corto dell’anno. Il testo è punteggiato di riferimenti autobiografici, tra i quali il più importante, “Il famoso impermeabile blu” del titolo, ci riporta a un Cohen venticinquenne e ancora sconosciuto. In un’intervista del 1975 lui stesso dichiarò “L’ho comprato da Burberry, a Londra, nel 1959. Mi stava addosso molto più eroicamente, quando gli ho tolto la fodera e ha guadagnato ulteriore gloria, quando le maniche sfrangiate sono state riparate con dei rattoppi in pelle”. È un pezzo toccante, cupo, doloroso, uno di quelli che gli hanno fatto guadagnare l’appellativo di “padrino della malinconia”, musicista da taglio delle vene. Eppure, nella sublimazione poetica della sua oscurità interiore, nel tentativo disperato di pacificare i tormenti dell’anima, Cohen riesce, di nuovo, a seminare catarsi.
Sincerely, Leonard Cohen
P.S.
Il p.s. è d’obbligo. Troppe canzoni importanti rimangono fuori da una cosa così semplicistica come una Top Ten. Quindi ne aggiungiamo giusto una manciata. Poi basta, giurin giurello.
“Suzanne” – Songs of Leonard Cohen, 1967. Di nuovo la donna come emblema del connubio tra passione carnale e devozione spirituale.
“Avalanche” – Songs of Love and Hate, 1971. La brutale resa poetica della depressione quando la depressione non era ancora riconosciuta come malattia.
“Bird on the Wire” – Songs from a Room, 1969. Una strizzata d’occhio a country e l’incipit di ogni concerto. Più complessa e profonda di quanto sembri, in perfetto stile Cohen.
“The Partisan” – Songs from a Room, 1969. La resistenza francese anti-nazista che qui si distacca e diventa semplicemente resistenza che combatte armata della sola musica.
“Don’t go home with your hard-on” – Death of a Ladies’ Man, 1977. Letteralmente “Non andare a casa con la tua erezione”. Sarebbe già incredibilmente interessante così, se non fosse che il coro è ad opera delle voci di Bob Dylan e Allen Ginsberg.
“Chelsea Hotel #2” – New Skin for the Old Ceremony, 1974. L’affaire Janis Joplin. Citando testualmente il brano, a quanto pare la cantante preferiva uomini molto più attraenti ma per Cohen fece un’eccezione.
“Waiting for a Miracle” – The Future, 1992. Fa parte della colonna sonora di Natural Born Killers di Stone, accompagna alla perfezione la scena del ballo erotico di Juliette Lewis.
“First we take Manhattan” – I’m your Man, 1988. Elettronica e provocatoria, maltollerante dei tempi che correvano,e che, nella sua proverbiale lungimiranza, corrono ancora.
“I tried to leave you” – New Skin for the Old Ceremony, 1974. L’epilogo di ogni concerto.
E ora continuate pure da soli.